“Il divario tra quello che dovremmo effettivamente fare e quello che realmente facciamo aumenta di minuto in minuto”. Potrei prendere a prestito queste parole di Greta Thunberg per tracciare un bilancio dei primi cinque anni dall’approvazione degli Accordi di Parigi alla Conferenza Mondiale sul Clima, del dicembre 2015 (Cop 21).

Quella Conferenza ha rappresentato una svolta cruciale perché ha creato consapevolezza, a livello dei 196 Paesi negoziatori, sul tema dei cambiamenti climatici, tracciando una road map per contenere il riscaldamento globale entro livelli governabili: l’obiettivo fissato dagli Accordi è la limitazione della crescita della temperatura media globale ad un massimo di 2 gradi centigradi entro la fine del secolo, rispetto ai livelli pre-industriali, rimanendo, recita il testo, il più possibile vicini agli 1,5 gradi.

Sicuramente da allora tante azioni sono state messe in campo, soprattutto a livello di Unione europea che ha elevato il target di riduzione delle emissioni climalteranti – dal precedente meno 40% – a meno 55% al 2030. E’ però altrettanto evidente che molti impegni sono stati disattesi. E in questo caso la logica del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto non aiuta a comprendere il punto di caduta finale e la tempistica del processo. Nella consapevolezza che non abbiamo un Pianeta B.

Al netto dei negazionisti climatici alla Trump (che ha fatto uscire gli Usa dagli Accordi) o alla Bolsonaro, l’elemento cruciale è la velocità della transizione energetica. Abbiamo chiaro dove dobbiamo andare: non solo noi ecologisti storici, ma anche alcuni big della finanza e dell’economia mondiale, come conferma il movimento mondiale del disinvestment dai fossili. Il punto è che ci stiamo muovendo molto lentamente. Una delle caratteristiche dell’essere umano è quella di sottovalutare gli effetti dei fenomeni nel lungo periodo. Una miopia che rispetto ai cambiamenti climatici potrebbe avere conseguenze drammatiche perché il periodo che abbiamo a disposizione per abbassare la febbre del pianeta non è più tanto, come ci ricordano i Climate Clock installati in giro per il mondo.

E come confermano i nuovi modelli di analisi del riscaldamento globale (ad esempio quello messo a punto dalla McGill University) che ci ammoniscono che il tempo a disposizione per invertire la rotta è molto meno di quello che pensavamo di avere a disposizione. Col risultato che la lentezza nel prendere le misure giuste rischia di trasformare tutto in parole vuote, in annunci che non hanno riscontro nella realtà.

A pesare negativamente c’è anche l’inerzia a perpetrare vecchi modelli, a conservare le posizioni di potere economico acquisite, perché il cambiamento le modifica, ed è un compito impegnativo, soprattutto se non se ne colgono le opportunità. Basti pensare che mentre c’è chi si oppone alla realizzazione di un parco eolico off shore in Romagna, si sta riaprendo la partita delle nuove trivellazioni per la ricerca in mare di combustibili fossili che andrebbero lasciati là dove sono.
Mettendo assieme queste istantanee, si ha una visione di quello che è successo a cinque anni da quella pur importante tappa: non siamo andati molto lontano e ci stiamo muovendo ancora lentamente.

Forse per questo abbiamo sentito ancora più forti le frustate di Greta, dei ragazzi dei Fridays for Future e di Extinction Rebellion, che hanno rimesso al centro dell’agenda politica globale il tema dell’emergenza climatica e puntato il dito contro le timidezze della politica. Lo dico senza giri di parole: vedere quei ragazzi nelle piazze di tutto il mondo è stato semplicemente salutare.

Gli Accordi di Parigi prevedevano una “verifica” a cinque anni. Causa Covid, il momento di verifica è rinviato a fine 2021, alla Cop 26 di Glasgow. Nel frattempo, però, i leader globali, riuniti virtualmente nel Climate ambition summit il 12 dicembre, hanno rinnovato l’impegno per la riduzione di emissioni climalteranti verso la neutralità carbonica al 2050. L’elezione di Joe Biden a Presidente degli Usa, il prospettato rientro degli Usa negli accordi e la nomina di peso di John Kerry ad ambasciatore per il clima lasciano ben sperare in un percorso virtuoso del secondo emettitore mondiale – gli Usa – dopo la Cina, che si è impegnata a raggiungere la neutralità carbonica al 2060.

Al momento è rimasto escluso dalla discussione il carbon pricing (la tassa sulle emissioni di carbonio) che, secondo diversi analisti, servirebbe invece ad accelerare la transizione. Vedremo se rientrerà in discussione a Glasgow.

In attesa della Cop 26 non resta che operare, ciascuno nel proprio ambito, perché alle parole seguano finalmente i fatti: concreti e misurabili.

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