Ora che la bagarre si è quai esaurita, vorrei tornare sulla querelle Feltri/Boldrini, per alcune riflessioni sul piano esclusivamente comunicativo, senza proseguire il discorso sugli aspetti legislativi che assolvono ampiamente Mattia Feltri, sulle delicate questioni della natura di un blog o sulle cattive maniere e i subdoli disegni di Laura Boldrini (il che non vuol dire che io non pensi da che parte sta la ragione, tanto i miei 25 lettori già lo sanno). La vicenda la conoscono tutti, quindi inutile ripercorrerla. Ma almeno tre elementi sono un po’ spariti nel corso del feroce dibattito e da questi mi sembra utile partire.

Il primo è la regola che Mattia Feltri ha imposto ai collaboratori dell’Huffington Post e in base alla quale esercita il sacrosanto diritto di pubblicare o meno gli articoli. La regola è un po’ bizzarra: “non parlo mai in pubblico di mio padre e non voglio che se ne parli sul mio giornale”, parole sue. Quindi, se per caso Vittorio Feltri diventasse Presidente della Repubblica (non è un’iperbole, ci fu nel centrodestra chi lo propose cinque anni fa), se vincesse il premio Nobel per la letteratura o si fidanzasse con Monica Bellucci, ai lettori dell’Huffigton non sarebbe possibile accedere alla notizia e ai relativi commenti, magari non tutti positivi. Una ben strana idea dell’informazione.

Secondo elemento: la critica. Se qualcuno ha letto il pezzo di Laura Boldrini, avrà visto che ciò che contestava a Vittorio Feltri era la scelta di un aggettivo, “ingenua”, riferito alla ragazza che ha subito violenza, una scelta che rimette in circolo il vecchio pregiudizio sulle responsabilità della vittima nei casi di stupro. Ora, è ben visibile a tutti che in molti programmi televisivi circolano con successo parodie che alludono pesantemente a certi vizi di Vittorio Feltri più imbarazzanti delle sue scelte lessicali. In questo contesto ormai ampiamente accettato, direi che riportare la critica a Feltri sul piano giornalistico, sulla pertinenza o meno di un suo aggettivo, lungi dal rappresentare un’offesa dovrebbe essere accolta come un segno di rispetto, come un onore.

Terzo elemento: la minaccia. Si sa che giornalisti e direttori sono soggetti a minacce. Sono quelle di politici potenti che minacciano un direttore di farlo rimuovere grazie alle loro amicizie influenti, o quelle della criminalità che manda “avvertimenti” ai giornalisti impegnati in certe inchieste scomode. Ma definire minaccia il fatto che una collaboratrice si rifiuta di modificare un suo pezzo e dichiara che renderà pubblica la richiesta, mi pare non solo una scelta lessicale discutibile ma un’offesa ai molti giornalisti davvero vittime di minacce.

Infine, si dice che in questa faccenda ci sono solo sconfitti e nessun vincitore. Non è vero, ci sono dei grandi vincitori: sono i pregiudizi che escono rafforzati e confermati come verità. Una grande vittoria per chi ama descrivere l’Italia come la patria di quello che viene definito il “familismo amorale” e per chi racconta il mondo giornalistico come un ambito che non ha mai saputo liberarsi del più smaccato nepotismo.

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