Con una nota di giugno 2020, il ministro competente aveva fatto sapere che “l’Università non può prescindere dall’aula in presenza, ovvero il luogo in cui studenti e docenti si incontrano”. E, intervistato da Radio24 a fine agosto, rincuorò tutti: “Abbiamo organizzato con tutti gli atenei la ripartenza in presenza a settembre, con affollamento delle aule al 50 per cento, disciplina degli accessi e sanificazione, per la piena sicurezza. Avremo una parte dei corsi in presenza, così come le attività di laboratorio, alcuni corsi verranno ancora tenuti a distanza, anche per garantire la continuità didattica”. Il 25 agosto 2020 è nata l’Università ibrida.

Mentre utopie come la Slow University sembrano sempre meno irreali, la pandemia ha comunque precipitato l’accademia in un nuovo mondo. In ordine sparso tutte le università del pianeta si sono attrezzate: chi in remoto, chi (di rado) in presenza, chi mescolando la ricetta, talvolta promossa come nuovo brand di un blended whisky, il distillato scozzese più venduto, popolare e a buon mercato.

In Italia, la parola d’ordine impartita da chi comanda è stata “ibridare”, ovvero mescolare presenza e distanza secondo uno schema integrato. Una ricetta applicata al meglio dagli atenei, che si sono mossi in modo autonomo, secondo capacità. Fino alle chiusure di questo ultimo mese con il ritorno della didattica a distanza.

Una delle motivazioni della ibridazione – presenza, anche se contenuta, e distanza assieme – sarebbe la capacità di attrarre di studenti stranieri da parte delle università italiane. Un approccio totalmente a distanza avrebbe potuto far pagare il ritardo del nostro sistema ad adeguarsi all’e-learning di qualità, quello che istituzioni come Harvard, Stanford e Mit hanno messo in piedi da anni. E i primi dati hanno dato ragione al ministero: le immatricolazioni hanno tenuto.

Un sondaggio pubblicato da Times High Education del 26 ottobre 2020 indica però la debolezza del modello a distanza: “Meno di un terzo dei potenziali studenti internazionali crede che l’apprendimento online in una università straniera sarebbe meglio che studiare faccia a faccia nel proprio paese d’origine. E gli studenti diretti negli Stati Uniti sono ancora meno propensi all’insegnamento a distanza”.

Solo il 25 per cento di coloro che avevano intenzione di studiare negli Stati Uniti ha infatti convenuto che studiare online in una università internazionale sarebbe stata la scelta migliore, rispetto al 57 per cento che non era affatto d’accordo. Al contrario, gli studenti che avevano intenzione di studiare nel Regno Unito si dividevano a metà, con il 38 per cento a favore e il 40 contro la didattica a distanza.

L’e-learning deve compiere ancora un passo fondamentale, la personalizzazione su larga scala. In tutti i settori, per esempio l’industria, la prima fase di e-sviluppo è l’imitazione dei vecchi processi. Poi, giocoforza, si cambia. Nell’alta formazione, la prossima sfida è lasciare che la stessa tecnologia modifichi i tradizionali, consolidati processi di apprendimento e insegnamento.

Per prima cosa, docenti e studenti devono dimenticare tutto ciò che facevano in presenza: faccia a faccia. L’obiettivo non è registrare lezioni di 50 minuti, ma creare contenuti specifici per il digitale, per esempio in blocchi da 5 a 15 minuti, magari emozionanti e memorabili.

Inoltre, i docenti dovrebbero fare uno sforzo enorme per creare un senso di vera e propria comunità, in primis attraverso la chat del sussidio telematico (Skype, Teams, Zoom o Webex che sia) e, poi, tramite forum di discussione e, perfino, attraverso i social media. Infine, sviluppare l’empatia, ingrediente essenziale di una iniziativa di e-learning di successo, una nuova forma di faccia a faccia da condividere in rete come un sentimento.

In questa ottica, il modello 50/50, metà degli allievi in aula e l’altra a casa a rotazione, ha poco senso. È un modello ibrido senza base educativa, che snatura presenza e distanza assieme. Didattica in presenza e a distanza possono, forse devono e dovranno convivere e ibridarsi, ma ciascuna con la propria specifica missione, metodologia, carica empatica, materialità e virtualità.

L’alta formazione ha montagne da scalare nel dopo-pandemia, che sarà un “dopo” assai diverso dall’ante. L’e-learning diventerà uno standard ma non sostituirà la presenza. Poiché la voglia di “stare a casa” non è destinata a sparire alla svelta, le università europee devono affrontare la nuova sfida: condividere un modello culturale, piuttosto che appiattirsi sulla pur benemerita funzione di riempire le pizzerie e i monolocali.

In tal senso, un ruolo importante avrà lo sviluppo di iniziative comuni in situ anche collegando siti lontani, gemellandosi con università di tutto il mondo, specialmente quello meno sviluppato.

Oggi compio 70 anni. Una soglia insperata che oso condividere con chi segue questo blog. Alla mia età ho molte cose da raccontare, ma la memora va rispettata e, soprattutto, non abusata. Dedico il dono di questi anni alla mia famiglia, agli amici che ho e a quelli che ho avuto, perché ogni amico è un mondo in noi, che inizia quando ci si incontra e crea ogni volta un mondo nuovo: né il tempo né la separazione cancellano l’amicizia.

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