L’ex Ilva di Taranto ha probabilmente continuato a inquinare anche tra il 2015 e il 2018, ma i responsabili non possono essere processati perché protetti dallo scudo penale istituito dal governo Renzi cinque anni fa e poi ‘ristretto’ dal governo Conte un anno fa. È quanto sostanzialmente contenuto nel provvedimento firmato dal giudice per le indagini preliminari di Taranto Benedetto Ruberto che ha accolto la richiesta di archiviazione presentata dalla procura di Taranto nei confronti alcuni dirigenti della fabbrica.

Il gip Ruberto aveva inizialmente sollevato questione di legittimità costituzionale sostenendo che l’immunità penale e alcuni decreti Salva Ilva emessi da diversi governi, violavano gli articoli 3, 24, 32, 35, 41, 112 e 117 della Costituzione. Lo scudo penale, però, è stato poi cancellato dal governo Conte e a quel punto la Consulta ha restituito gli atti al gip per una nuova valutazione. Nella sua nuova valutazione il magistrato ha dovuto prendere atto che la Consulta non poteva pronunciarsi su una norma che ormai non esiste più, ma allo stesso tempo che per il periodo in cui è stata in vigore, quella stessa norma vieta alla procura di perseguire i responsabili di eventuali reati commessi in fabbrica.

Gli indagati, insomma, non potranno essere giudicati per i tre fatti analizzati dalla Procura: sforamenti di diossina, di black carbon e soprattutto per i lavori di ampliamento della discarica interna all’Ilva.
Erano infatti tre i fascicoli d’indagine sull’ex Ilva bloccati dall’immunità concessa ai vertici della fabbrica. Nel primo procedimento si contestava inizialmente il reato di disastro ambientale per i dati allarmanti degli inquinanti rilevati tra novembre 2014 e febbraio 2015: erano stati i carabinieri del Noe di Lecce e i tecnici Arpa Puglia a chiarire che i valori di diossine e furani, sostanze cancerogene, emesse in quel periodo erano “pericolosamente superiori ai limiti”. A questi documenti si erano poi aggiunti anche segnalazioni inviate dal comitato “Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti” e di Angelo Bonelli, membro dell’esecutivo nazionale della Federazione dei Verdi. Le indagini poi affidate anche alla Guardia di finanza avevano portato all’iscrizione nel registro degli indagati di Ruggiero Cola e Nicola Petronelli, all’epoca dei fatti rispettivamente direttore dello stabilimento e capo dell’area agglomerato.

Il secondo invece, aperto contro ignoti, era stato avviato quando il Comune di Statte, piccolo centro a pochi chilometri da Taranto, aveva segnalato che nella discarica interna dello stabilimento Mater Gratiae erano in corso “attività estrattive su aree inquinate” con “rilevanti dispersioni di polveri contenenti microinquinanti depositatisi su suolo, a danno di operai, della collettività, soprattutto dei cittadini residenti a poche centinaia di metri dal sito”. In quella denuncia, inoltre, l’ente aveva aggiunto che la falda acquifera era “conclatamente inquinata dalle sostanze lasciate dal dilavamento dei terreni di riporto”.

Il terzo fascicolo, infine, era nato dopo che Arpa Puglia aveva prodotto un report dell’anno 2016 sul monitoraggio della qualità dell’aria nei pressi dello stabilimento: da quell’analisi emergeva che i livelli di polveri sottili (pm10 e di pm2,5) e inquinanti come il benzene erano sempre superiori ai limiti in alcune aree della fabbrica. Non solo. I dispositivi avevano registrato un valore medio annuale molto alto nel quartiere Tamburi del black carbon, sostanza che si forma in seguito a una combustione incompleta di fossili e biomassa e che viene emesso da sorgenti naturali e artificiali sotto forma di fuliggine. Un valore che, secondo gli esperti dell’Agenzia regionale pugliese era più alto persino di quello rilevato all’interno dell’Ilva. Accuse di inquinamento dell’aria, della terra e dell’acqua di falda che quindi non potranno neppure essere neppure approfondite in un processo. Fare luce sull’ex Ilva, negli ultimi anni, era vietato dalla legge.

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