La Spagna va in controtendenza, il governo di sinistra guidato dal socialista Pedro Sánchez mette al centro della manovra finanziaria per il 2021 l’aumento delle imposte per chi produce più reddito.

In poche parole, si punta tutto sulla patrimoniale.

Un unicum tra i paesi membri dell’Unione europea, concentrati su misure economiche espansive, sulle agevolazioni per i contribuenti, sulla promessa di riforme dirette alla riduzione dell’Irpef, come paventata da tempo dal nostro ministro Roberto Gualtieri.

In Spagna no, le imposte cresceranno per i redditi più elevati, e verso l’alto schizzerà pure la tassazione per le imprese.

Un’operazione di “giustizia sociale” che i due leader della coalizione di governo, il premier Pedro Sánchez e il suo vice Pablo Iglesias, fondatore di Podemos, presentano rispolverando un totem della sinistra: “garantizar que los que más tienen, aporten más” (chi ha di più, versi di più).

Insomma, progressività!

Così i contribuenti che dichiarano più di 200mila euro saranno chiamati a pagare un Irpef pari al 26%, con l’aliquota che sale di 3 punti, mentre coloro che sforano il tetto dei 300mila verseranno all’erario il 47 per cento (finora l’aliquota era fissata al 45%). Secondo le stime dell’Agenzia tributaria la riforma toccherà una piccola fetta di contribuenti, ad esempio solo lo 0,08 per cento di essi rientra nello scaglione con imposta al 47 per cento.

Sarebbe sbagliato ritenere la scelta dell’esecutivo di Madrid una sorpresa in senso assoluto: Podemos da sempre incarna l’anima più intransigente della sinistra. Seppure entrata nel sistema, la formazione di Iglesias ha mantenuto un forte segno antiliberista che spesse volte ha imbarazzato i socialisti, da sempre su posizioni più moderate.

Del resto è stata Podemos a pretendere la patrimoniale tra i punti qualificanti del programma di governo, anzi la coalizione, prima dell’irrompere sulla scena del coronavirus, era orientata ad applicare l’aumento dell’Irpef per soglie più basse di reddito (a partire dai 130mila euro annui) mentre per i guadagni superiori ai 300 mila l’aliquota sarebbe aumentata di 4 punti.

L’impatto della pandemia si è quindi sentito anche sulla riforma fiscale, gli aumenti saranno più contenuti ma segneranno pur sempre una traccia contraria rispetto alle tendenze espresse dalle principali cancellerie europee.

L’intervento è articolato, ne è colpito parte del tessuto imprenditoriale, una aliquota minima, prima inesistente, del 15% è introdotta per le società d’investimento immobiliare quotate in borsa, aumenta l’imposta sui dividendi e sulle plusvalenze per i grandi gruppi, misura che toccherà solo lo 0,12% delle imprese. Cambia l’Iva sulle bevande zuccherate passando dal 10 al 21 per cento se acquistate al dettaglio, se consumate in bar o ristoranti rimane invariata. Aumentano, ancora, le accise sul diesel e per chiudere si introducono la Tobin tax e la “tasa Google”, imposta che la grande multinazionale californiana, e le altre imprese di settore di gran fatturato, saranno chiamate a pagare per servizi offerti nel campo della pubblicità o della vendita di dati.

Provvedimenti che fanno storcere il naso al mondo delle imprese perché in grado di creare barriere alle start up e alle piccole aziende, con riflessi anche sugli utenti finali di piattaforme digitali.

Il governo è convinto: progressività e nuovi tributi garantiranno le entrate utili per nuovi interventi nel welfare tali da raggiungere un incremento del dieci per cento della spesa sociale. Misure ritenute indispensabili in un clima di incertezza caratterizzato da fosche stime sul Pil (negli ultimi mesi con un segno negativo di oltre il 18%), un arretramento significativo delle esportazioni pari al 33% l’esplosione dell’Erte, la cassa integrazione.

Il crollo del turismo e la stasi dei servizi hanno messo a nudo la fragilità del “sistema Spagna”, un tessuto economico molto diverso dall’Italia, con poca industria manifatturiera e una rete di pmi poco dinamiche.

Differenze messe in luce dai dati pubblicati in questi giorni dal nostro Istat, è clamorosa la crescita, nello scorso settembre, dell’export italiano verso paesi extra UE. Rispetto allo stesso mese del 2019 si è registrato un più tre per cento delle esportazioni, trainato dal commercio con la Cina e con gli Usa.

Non è forse un caso che la capacità d’impresa degli italiani sia sempre stata un modello di riferimento per la classe imprenditoriale spagnola.

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