Il fumo sale sinuoso fino a nascondere la faccia di Marcello Lippi. Le telecamere riescono a catturare soltanto i suoi occhi. Sono seri e sagittati. Ma, soprattutto, preoccupati. Perché in quella sera del 13 settembre 1995 la Juventus sta giocando una partita decisamente complicata. Il cielo sopra il Westfalenstadion ha il colore della ghisa. E non fa altro che sputare freddi goccioloni sulla testa dei giocatori. Il Borussia Dortmund ha impiegato appena trentasei secondi per passare in vantaggio. Andreas Möller ha raccolto il pallone dopo uno scarabocchio della difesa bianconera e ha calciato di sinistro. Il tiro è forte, ma anche centrale e innocuo. Solo che la domenica precedente Peruzzi si era scontrato con Di Francesco e aveva riportato una piccola frattura al naso. Così quando vede il pallone che vola verso la sua faccia, il portiere va in cortocircuito e cade all’indietro. La sfera gonfia la rete e fa esplodere lo stadio. È il classico gol dell’ex. “Confesso che il gol l’avrei potuto prendere – dice Peruzzi a fine partita – ma ho visto la palla, tra l’altro deviata da Porrini, venirmi verso la faccia improvvisamente e ho avuto paura. Se non avessi avuto questo nasone l’avrei presa”.

Lippi è nervoso. Anche se dieci minuti più tardi Michele Padovano aveva segnato il gol del pareggio. Al tecnico di Viareggio serve una vittoria. A tutti i costi. Perché Lippi deve lanciare un messaggio, deve dimostrare che la via che ha scelto è quella giusta. Non gli basta aver riportato la Juventus in Champions League dopo 9 anni di assenza. Deve stroncare le polemiche, deve convincere gli altri che le decisioni prese in estate non erano poi così folli. Perché solo qualche mese prima Marcello Lippi aveva lasciato partire Roberto Baggio. Il rapporto fra i due era arrivato ai minimi storici, così il tecnico lo aveva accompagnato alla porta senza troppi salamelecchi. “Ti auguro di trovare quello che cerchi”, dice l’allenatore. “Mi dispiace perché l’avevo già trovato qui”, risponde il numero 10.

Quello di Baggio diventa un nome da non pronunciare più, un ricordo da cancellare il prima possibile. Anche perché il futuro della Juventus ha il sorriso di un ragazzo di 21 anni con la barba disegnata e i modi gentili. Si chiama Alessandro Del Piero e l’anno prima aveva segnato 8 gol in 29 presenze. Per qualcuno non basta. Far andare via Baggio per puntare tutto su un ragazzo dalle ottime prospettive è un suicidio sportivo. Non per Lippi. Non per un allenatore che vuole portare a termine una rivoluzione. L’idea è quella di dar vita a un sistema, a una serie di automatismi e di principi da imparare a memoria durante gli allenamenti e da ripetere in campo. I giocatori devono essere tutti intercambiabili, la qualità del gioco non deve calare per l’assenza di qualche interprete. Quella con il Borussia Dortmund è la gara ideale per dimostrarlo. Perché la Juventus deve fare a meno di Vialli e Ravanelli, di Lombardo e di Vierchowod. Eppure Bettega ha una fiducia granitica nel suo allenatore. “Prima ci adattavamo all’avversario – spiega – Ora, grazie a Lippi, cerchiamo di imporci, sempre e comunque. È un modo di concepire il calcio che alla fine paga“.

Quella contro il Borussia Dortmund è la prima gara in Champions di Alessandro Del Piero. Ma nessuno sembra accorgersene. Quasi tutti lo chiamano rincalzo. Almeno fino a quando inizia a nascondere il pallone ai tedeschi. Pinturicchio pennella una grande giocata dopo l’altra, mette il pallone sulla testa di Padovano per il pareggio. Il Borussia colpisce un palo dalla distanza, poi al 36’ Paulo Sousa recupera la sfera sulla trequarti difensiva e lancia in avanti. Del Piero scatta e riceve palla sulla sinistra, qualche metro prima della linea del fallo laterale, poi rientra verso destra. Davanti a lui c’è Jürgen Kohler che gli blocca l’angolo di tiro. Così il numero 10 bianconero si ricorda di quel colpo che faceva da bambino.

“Vedo tutto ancora nitidamente, come fosse successo ieri – scriverà nella sua biografia tempo dopo – Mio padre che libera il garage per farmi spazio, parcheggiando fuori la nostra 127 color giallo crema, io che preparo per terra la pallina da tennis, mentre inquadro già l’interruttore della luce. […] L’interruttore è l’obbiettivo, il centro del mio desiderio. L’interruttore è la porta. Se lo colpisco, faccio goal. Se lo colpisco, si accendono le luci dello stadio”. Così finta di rientrare sul destro, se la sposta sul sinistro, si apre un varco. E poi calcia con il destro cercando il palo lontano. La palla si alza e inizia a planare. Si abbassa proprio sotto la traversa, lì dove Klos non può neanche pensare di arrivare. È un gol fatto di arte applicata al calcio.

È una rete che diventa iconica, una categoria. Non è un inedito, chiedere a Napoli e Lazio. Ma il gol alla Del Piero nasce quella sera. È un’estasi per gli occhi, un cioccolatino per gli appassionati. Del Piero però non ha ancora finito. Vuole dare ancora un’altra pennellata. Al 70’ mette in mezzo un cross che Antonio Conte trasforma nel definitivo 1-3. Il nome di Baggio diventa eco lontano e indefinito. Pinturicchio ha dato vita al suo primo capolavoro. E tutto il mondo si è fermato ad ammirarlo.

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