Essendo i più esposti dovevano essere tutelati per primi. E invece sono stati dimenticati come fossero gli ultimi, lasciati soli difronte al dilemma di perdere il posto o la salute. Sono i “lavoratori fragili”, una categoria che il decreto “Cura Italia” aveva protetto stabilendo che l’assenza dal lavoro per portatori di disabilità e affetti da gravi patologie fosse equiparata al ricovero ospedaliero, quindi non computato nei 180 giorni di malattia oltre i quali si può procedere al licenziamento. Tutele poi prorogate nel successivo Decreto “Rilancio” fino al 31 luglio 2020 ma scomparse in quello agosto in via di conversione, dove non c’è alcun riferimento all’articolo 26 comma 2 della legge che li proteggeva. Così da 35 giorni migliaia di lavoratori con la 104 si sono ritrovati di fronte alla scelta di rientrare comunque in servizio, con tutti i rischi del caso, oppure di restare a casa ma utilizzando ferie o malattia tramite certificato medico, fino al termine dei sei mesi che ne consente il licenziamento. Ed è una grana gigantesca che esplode proprio ora, a ridosso della riapertura delle scuole e delle attività produttive: quella dei lavoratori fragili dimenticati.

Una situazione surreale che ancora oggi non trova soluzione nonostante il tam tam sindacale, delle associazioni dei malati e professionali e delle riviste di settore. Il Ministero del Lavoro e l’Inps attendono interventi, i parlamentari si mobilitano come possono per un rapido “correttivo”: lo hanno fatto diversi partiti depositando emendamenti ad hoc che sono decaduti con la questione di fiducia e anche un ordine del giorno, approvato proprio ieri, che impegna il governo a mettere una pezza a questa dimenticanza che affligge certo i lavoratori, aumenta il rischio di contagio e rischia di mettere in crisi interi comparti, a partire dalla scuola. Nel frattempo c’è chi si è messo cautelativamente in malattia con il certificato che l’Inps, nelle more di un chiarimento, congela in una specie di limbo: se la norma salva-fragili sarà prorogata sarà retroattiva e sanerà le posizioni, altrimenti si rischia il caos.

I lavoratori sono migliaia, le testimonianze drammatiche. “Sono una lavoratrice con broncopneumopatia cronica ed enfisema polmonare con invalida civile al 50%, sottoposta a terapia salvavita alla quale è stata riconosciuta l’astensione dal lavoro, equiparata al ricovero ospedaliero, fino al 31 luglio. Ora io mi trovo nella condizione di dover tornare al lavoro perché non risulta prorogata la disposizione dell’ art. 26 co. 2 bis D.L. 15 ottobre 2020 n. 18. con tutti i rischi conseguenti, mentre risulta prorogata, per la stessa categoria di lavoratori, la salvaguardia di cui all’art. 39 stesso decreto (disposizioni in materia di lavoro agile). Spero che in questi 10 giorni si ricordino anche di noi”.

Sul fronte scuola, dopo gli incontri sindacali dei giorni scorsi, si attende una circolare del Ministero. Possibile l’apertura di una finestra sul fronte della “ricollocazione” del personale che non scioglie però il nodo di quello non impiegabile da casa (bidelli, addetti alle pulizie…). Si tratta del decreto 19 maggio 2020 n.34 sulla “sorveglianza sanitaria” dei soggetti fragili che mette in campo i medici del lavoro chiamati a individuare mansioni compatibili con le esigenze di salute del lavoratore. In caso negativo, il dipendente viene dichiarato dall’azienda “temporaneamente inidoneo” ma non può essere licenziato. L’uso surrettizio di questa possibilità non risolve però il problema dei fragili senza tutele.

“Un problema gravissimo che è necessario affrontare subito”, spiega Vittorio Agnoletto, medico e responsabile dell’Osservatorio Coronavirus di Medicina Democratica, mettendo in fila le conseguenze drammatiche cui vanno incontro non solo i lavoratori interessati ma tutti noi. “La situazione è grave per i soggetti fragili perché la loro patologia, specie se immunodepressi, li espone maggiormente al rischio di contagio e viceversa il contagio aggraverebbe la patologia. E qui colpisce che si sia dimenticata proprio la parte più esposta della popolazione che il legislatore aveva inteso tutelare. Al danno alle singole persone si aggiunge quello per la collettività: non avendo più tutele, molti sceglieranno di andare a lavorare sapendo di essere esposti e saranno più facilmente aggrediti dal virus diventando essi stessi veicolo di contagio, e alla fine ci saranno più malati e più persone da ricoverare, quando un ricovero costa certo più che consentire a chi è a rischio di stare a casa senza esporsi. C’è poi un tema di discriminazione tra malati: quello che può essere reimpiegato stando a casa avrà una via d’uscita da questo limbo e gli altri no, penso ai bidelli come agli operai, ai trasportisti etc. Loro o rischiano il posto o la pelle. Non è accettabile”.

L’Anfass, la più grande associazione italiana di famiglie di persone con disabilità, ha collaborato alla stesura della norma originaria che chiede di prorogare prima possibile e al tempo stesso di semplificarla. “Già nella prima formulazione – spiega l’avvocato Gianfranco de Robertis – erano state inserite disposizioni pasticciate, ad esempio sul fatto che per coloro che sono in possesso della 104 ma non hanno un’indicazione di gravità dovesse rendersi necessaria una certificazione ulteriore da parte dei “competenti organi medico-legali”, una formulazione vaga che ha dato la stura a una serie di dubbi se a dover certificare l’immunosoppressione fosse quello dell’Inps o il medico di famiglia come aveva ritenuto la Presidenza del Consiglio”.

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