Per ricordare Sergio Zavoli e il suo fondamentale contributo alla storia della radio e della televisione italiane c’è davvero l’imbarazzo della scelta. Ci si può soffermare sulla sua illuminata presidenza della Rai o tornare indietro nel tempo per ricordare i lavori realizzati nell’ambito di un genere molto particolare come il radiodocumentario.

Un titolo spicca tra tutti, Clausura, che nel 1958 riuscì a far entrare un microfono in un convento bolognese e a far palare della loro vita le suore che lì vivevano isolate dal mondo. E poi c’è La notte della Repubblica, la grande inchiesta televisiva sul terrorismo dei cosiddetti anni di piombo: c’è un brano di quel programma, l’incontro in carcere con Mario Moretti, che ogni anno metto nei miei corsi di giornalismo televisivo come testo obbligatorio per capire cos’è davvero un’intervista.

Ma se devo scegliere uno dei tantissimi lavori come simbolo della televisione di Zavoli, non ho dubbi: Il processo alla tappa. Non lo dico per snobismo né per nostalgia dei miei anni di liceo o di quella grande epoca del ciclismo con Merckx e Gimondi. Lo dico in base a una tesi che voglio argomentare e condividere con i miei 25 lettori.

Fare del grande giornalismo su temi importanti e scottanti come le trame nascoste del terrorismo o l’emarginazione sociale è una cosa che riesce solo a pochi, ai maestri. Ma avventurarsi in un ambito basso, popolare come il ciclismo e costruire da lì un piccolo capolavoro è una cosa unica, frutto di un talento straordinario. C’è un dibattito aperto tra gli storici della tv: chi è stato l’inventore del talk show in Italia? Costanzo? Funari? Falivena? Credo che prima dei programmi di questi conduttori ci sia il Processo zavoliano in onda dal 1962.

L’idea iniziale era semplice, per alcuni banale: si trattava di radunare su un palco protagonisti e testimoni della tappa del Giro d’Italia appena conclusa per commentare vittoria, sconfitta, strategie, progetti per l’indomani. Partecipavano corridori, direttori sportivi, giornalisti e, negli anni successivi, in seguito al grande successo del programma, arrivarono gli scrittori e gli intellettuali appassionati di ciclismo.

Quello che ne venne fuori fu un sublime teatrino in cui, tra una discussione sulla tattica sbagliata e una polemica su una scorrettezza, emergevano sempre più netti dei personaggi, dei caratteri. C’era il giovin signore elegante e a suo agio davanti alla telecamera, il ragazzo timido e imbranato a cui sfugge una parola che in tv non si poteva dire, il chiacchierone aggressivo, l’esuberante un po’ spaccone che minacciava di far cadere nella sua rete gli avversari un po’ troppo furbetti e poi esibiva le sue doti canore; c’erano i direttori tecnici pacati, paterni, protettivi nei confronti dei loro atleti, delle loro ingenuità e intemperanze e poi c’erano le grandi firme del giornalismo sportivo con il loro eloquio raffinato.

Non solo un talk ma una sorta di commedia dell’arte con le sue maschere e un canovaccio costruito di volta in volta in base agli eventi dal conduttore. Zavoli portò avanti questa esperienza fino al 1969, creando non solo un appuntamento atteso e amato dal pubblico ma inventando un nuovo genere televisivo. Il talk vero, non quello del dibattito politico, dello scontro precostituito tra sostenitori di tesi opposte, ma quello che mescola personaggi di diversa estrazione per farli conversare. Quello che poi fu del Maurizio Costanzo show è nato lì, nel luogo più imprevedibile, sulle strade del Giro, su un palco che ogni giorno si smontava e rimontava, con i protagonisti in teoria meno adatti, corridori ciclisti affaticati e solitamente di poche parole.

Questo resta il capolavoro di Sergio Zavoli, l’esito più sorprendente ed esemplare della sua disposizione ad attraversare gli ambiti più lontani della comunicazione di massa e della sua capacità di rivelare l’autenticità dei suoi interlocutori: si tratti di una suora di clausura, di un terrorista non pentito, di un campione di ciclismo o di un gregario.

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