Alle sette di un giovedì sera di piena estate in piazza San Marco sono rimasti solo i piccioni. I pochi turisti presenti siedono nei tavolini vuoti dei bar della piazza sorseggiando uno spritz. “Non avevo mai visto Venezia così – spiega Jacob, un ragazzo ungherese che è arrivato qui in auto insieme alla compagna – ma è più bella e rilassante senza tutta quella gente”. È questa la Venezia trasformata dal lockdown e dalla pandemia. Niente ressa nelle calli intorno a Rialto, negozi chiusi e hotel mezzi vuoti. “L’emergenza sanitaria ha evidenziato un problema storico della città: quello della monocoltura turistica” spiega l’artigiano Piero Dri, che anni fa ha scelto di aprire la sua bottega nel quartiere popolare del Cannaregio. Produce roncole e remi per le gondole che ogni giorno percorrono la Laguna. “Siamo rimasti in quattro in tutta la città e forse in tutto il mondo, gli ultimi dei mohicani” scherza con amarezza mentre pensa ai tanti negozi di quartiere che sono stati costretti a chiudere negli ultimi anni a causa dell’aumento degli affitti. “I prezzi sono già fuori mercato e se si continuerà così in ottica super turistica, gli affitti cresceranno ancora di più”. E gli artigiani saranno costretti a spostarsi lontano dalla Laguna.

Ma non sono solo gli artigiani a dover abbandonare la città antica: ci sono anche i residenti. Francesco Penzo è uno dei 51mila abitanti che resistono tra le calli della città. Fa parte dell’Osservatorio CivicO Indipendente sulla casa e la residenza che analizza e monitora la questione abitativa. “Ogni anno perdiamo circa un migliaio di persone. Sia per questioni anagrafiche, ma soprattutto perché trovare una casa in affitto qui è diventato sempre più complesso”. Nel 2018 il numero dei posti letto per locazione turistica ha raggiunto il numero dei residenti: 52720 abitanti e 52996 posti letto. Una crescita esponenziale che si è verificata soprattutto nel triennio 2016-2019. Di questi posti letto, stando ai dati elaborati dall’Osservatorio, 33mila fanno parte del settore non alberghiero (56%) che comprende Airbnb, affittacamere, residence. “Al contrario della narrazione che fanno le piattaforme, non sono attività di integrazione del reddito delle famigliole, ma sono attività imprenditoriali di tipo estrattivo” spiega Penzo riferendosi al fatto che il 22% degli host su Airbnb gestisce il 62% degli annunci. “Quando il patrimonio immobiliare viene gestito da un piccolo numero di grandi strutture economiche che non hanno sede a Venezia, i guadagni vengono estratti e portati altrove. Sul tavolo, invece, rimangono solo le briciole”

Un problema che è stato riconosciuto anche dall’Università di Venezia. “Nel corso degli anni la città, apparentemente immutata all’esterno, è profondamente cambiata – scrive l’ateneo – trasformando le case per adeguarle a una pressione turistica senza precedenti, Venezia ha perso i residenti e allontanato quella comunità di studenti e lavoratori che per anni l’avevano abitata”. Che fare? La proposta dell’Università è quella di sperimentare una “convenzione con i proprietari che da settembre a febbraio metta sul mercato, a prezzi sostenibili, un consistente numero di alloggi o camere, compensando la forzata inattività”. Un’idea che viene respinta dagli studenti universitari. “Ci considerano come dei tamponi” spiega Anna Clara, studentessa di lettere che fa parte del Collettivo Lisc. “Prima spolpavano i turisti, adesso che non ci sono più spolperanno noi e quando torneranno i turisti, ci cacceranno via”. Per vivere a Venezia si spendono in media cinquecento euro per una singola. Trecento euro per un posto in doppia. Così anche gli studenti scappano verso la terraferma. “Tutte le città colpite dall’overtourism come Amsterdam, Berlino e Lisbona stanno cercando di mettere dei paletti – conclude Penzo – è la politica che deve regolamentare, se non metti delle soglie, si creano squilibri con le rendite che vanno solo a una parte dei soggetti che giocano la partita in città”.

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