Giovanni Paparcuri ha vissuto almeno tre vite. La prima è finita il 29 luglio del 1983 alle 8 del mattino in via Giuseppe Pipitone Federico: era l’autista che aspettava Rocco Chinnici sotto casa per portarlo in ufficio. Fu l’unico sopravvissuto di quella spaventosa esplosione che fece diventare Palermo come Beirut. “Putroppo il consigliere Chinnici viene ricordato solo per questo: perché fu il primo magistrato assassinato con un’autobomba”. La sua seconda vita Paparcuri la deve a Paolo Borsellino: “Fu lui ad avere l’intuizione giusta che mi fece diventare, in pratica, l’esperto informatico del pool Antimafia“, racconta lui, che per Borsellino ha fatto ricerche importanti. Una è stata quasi dimenticata. “Mi ricordo che un giorno, circa una settimana prima della strage di Capaci, mi viene a trovare e mi dice testualmente: Giovanni, hai niente su Berlusconi?“, è la testimonianza consegnata da Paparcuri al fattoquotidiano.it. I documenti trovati dopo una lunga ricerca dall’informatico sono gli stessi che poi Borsellino mostrerà a Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo, i due giornalisti francesi che vanno a intervistarlo il 21 maggio del 1992. Quell’intervista, come è noto, sarà resa pubblica in forma integrale soltanto nel 2009, quando Il Fatto Quotidiano la diffonde in Dvd. “Ma io all’epoca non ne sapevo nulla. Col senno di poi credo che Borsellino prima di venire da me avesse parlato di quella vicenda con Falcone. Ma questa è solo una mia riflessione”, dice Paparcuri 28 anni dopo la strage di via d’Amelio.

1986, festeggiamenti per la nomina di Borsellino a procuratore di Marsala. Paparcuri al centro, di spalle a destra Falcone

Risponde al telefono mentre è seduto in quella che un tempo era la stanza del magistrato assassinato il 19 luglio del 1992. Nella sua ultima vita, infatti, Giovanni Paparcuri è il padre di quello che lui chiama il “bunkerino“: sono le stanze blindate al piano ammezzato del Palazzo di giustizia di Palermo. Qui, negli anni ’80, lavoravano Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e il resto del pool creato da Chinnici e poi guidato da Antonino Caponnetto. Dopo le stragi quelle stanze sono state dimenticate: diventate una sorta di ripostiglio, era difficile persino individuarle. Poi nel 2015 sono tornate a vivere grazie a Paparcuri, che negli anni ha conservato tutto quello che c’era nel bunker. E grazie all’aiuto dell’Associazione nazionale magistrati lo ha fatto diventare un museo di storia civile. “Facciamo testimonianza“, dice lui, che si commuove quando spiega di aver ricollocato nella stanza di Borsellino la sua macchina da scrivere. “La usava spesso – racconta – era velocissimo a battere a macchina mentre Falcone scriveva a penna”. Vicino alla macchina, Paparcuri ha rimesso al suo posto il tocco, cioè il cappello dell’abito cerimoniale da magistrato: “Lo ha indossato l’ultima volta al funerale di Falcone”. Sul tavolo il necrologio scritto proprio per l’amico assassinato a Capaci. E poi un encomio ricevuto dal presidente del tribunale nel 1982, dieci anni prima di morire, per “l’alto servizio svolto al palazzo di giustizia di Palermo”. Tra le carte di Borsellino una copia dei “Professionisti dell’antimafia“, il celebre articolo di Leonardo Sciascia, uscito sul Corriere della Sera il 10 gennaio 1987. “Quel pezzo con tutto quello che rappresenta mi fa ancora oggi molto incazzare. Sa che ne ho trovato due copie di quell’articolo? Una era tra le cose di Falcone e una tra quelle di Borsellino?”

La stanza di Borsellino al Bunker
La stanza di Borsellino al Bunker

Paparcuri, come le è venuta l’idea di rifare il bunker?
Subito dopo le stragi mi colpì che nessuno aveva pensato di andare a perquisire quelle stanze. Nessuno era andato a recuperare il pc che Falcone usava a Palermo, o le carte di Borsellino. Qui poi è diventata una discarica, una sorta di magazzino. Io, però, ho conservato tutto: appunti, carte, oggetti, ho recuperato il databank del dottore Falcone, le ordinanze sentenze. Ho qui in mano quella del Maxi-ter: avevo messo una copertina rossa. A Falcone piaceva ma me la fece cambiare.

Nel 2015 la “discarica” è tornata a essere un bunker ed è diventata museo.
Sì, ma non è il solito museo. Non ci sono solo oggetti, ci sono storie. Io racconto a chi viene il lato umano dei magistrati antimafia. Purtroppo ora a causa del virus siamo chiusi da febbraio. Ma dal 2016 sono passate da qui 30mila persone.

Turisti, appassionati di storia antimafia, curiosi: chi sono i visitatori?
Chiunque, pure i palermitani. Una volta trovai nella stanza del dottore Falcone una signora mentre piangeva. Le chiesi: ma perché piange? Mi rispose: perché io ero una di quelle che si lamentava del chiasso che faceva la scorta di Falcone.

Borsellino e Paparcuri

Quest’anno il 19 luglio viene di domenica, come nel 1992. Dov’era all’epoca Giovanni Paparcuri, “esperto informatico” del pool Antimafia?
A casa, non mi ricordo se ritornavo dal mare. Sentii un boato, un tonfo secco. Il mio primo pensiero fu per il dottore Borsellino. Mi affacciai dal balcone e vidi una nube nera che si vedeva da tutta Palermo. Al contrario di come avevo fatto per la strage di Capaci, non telefonai a nessuno, non chiesi nulla. Scesi subito da casa.

Perché no?
Perché ero sicuro: segui la nube di fumo e arrivai in via d’Amelio.

Che cosa trovò?
Quello che mi ha impressionato era la puzza di carne bruciata. Più mi avvicinavo al portone della madre del dottore Borsellino, più desideravo due cose.

Quali?
La prima: speravo che fosse solo ferito. La seconda: se è morto, spero non abbia capito nulla. Poi ho visto un piccolo corpo, mutilato, nero: l’ho riconosciuto dal sorriso. Una smorfia che però sembrava un sorriso. Prima rideva spesso, dal 23 maggio non lo aveva fatto più.

A un’esplosione molto simile lei era sopravvissuto nove anni prima. Che cosa si prova?
Io non mi accorsi di nulla. Mi ricordo delle belle sensazioni, un tunnel con una luce bianca in fondo. Mi sentivo leggero. Poi mi svegliai e la realtà era tremenda: ero pieno di sangue, le due dita della mano destra staccate. Non riuscivo a tenere gli occhi aperti e iniziai a provare paura: capii che se li chiudevo potevo morire. Poi in ambulanza mi ricordai tutto e allora chiesi: ma come sta il consigliere Chinnici? E l’infermiere, candidamente, mi rispose: si ni futtissi, murieru tutti. Più o meno vuol dire: stia tranquillo e pensi alla sua vita, gli altri sono già morti.

Quello è il primo attentato con un’autobomba nel centro di una città.
Purtroppo Chinnici è ricordato solo per questo motivo. Ma bisogna ricordare che l’idea del pool antimafia è sua. Le prime indagini da cui nasce il Maxiprocesso sono sue. Ma il merito più grande di Chinnici è un altro: fu il primo magistrato a credere nei ragazzi. Fu il primo in assoluto che andava a parlare coi più giovani. Il mio primo giorno di servizio lo dovetti accompagnare in una scuola. Mi chiesi tra me e me: ma che ci va a fare?

Che ci andava a fare?
A raccontare il primo pericolo dell’epoca: la droga. Che poi era ed è un’altra faccia della mafia.

Paparcuri sulla destra, oggi

Dopo la morte di Chinnici, come mai Borsellino le propose di diventare “l’informatico” del pool?
Mi venne a trovare in ospedale dopo l’attentato. Dovevo essere operato: l’esplosione che mi aveva colpito mi aveva fatto gonfiare i polmoni e quindi sentivo come se mille spilli mi pungessero al petto. Lui non poteva saperlo: per farmi coraggio si appoggiò e mi diede una sorta di pacca. Io gridai di dolore.

E Borsellino?
Niente, divenne piccolo piccolo e se ne andò. Sarà per quell’episodio o chissà per cosa altro, fatto sta che un anno dopo, quando tornai a lavoro alla fine della convalescenza, Borsellino mi ha fatto rinascere.

In che senso?
Con il consigliere Chinnici stavo per morire, col dottore Borsellino sono rinato. So che sembra assurdo ma mi hanno sempre colpito le analogie tra i due: sono nati entrambi il 19 gennaio, seppur di anni diversi. Sono morti tutti e due nella stessa maniera, con lo stesso metodo: un’autobomba. Lo stesso modello di autobomba: una 126. Il destino è beffardo.

Ma in che modo Borsellino l’ha fatta rinascere?
Sapeva che mi piaceva l’informatica. Fu lui a trovare la soluzione dell’informatizzazione del Maxiprocesso, che all’inizio avevano affidato a una ditta esterna. L’idea geniale è stata sua, poi venne appoggiata da Falcone e Caponnetto.

In pratica lei faceva le ricerche informatiche negli archivi per i magistrati del pool?
Anche, sì. All’inizio dovevamo digitalizzare gli atti. Poi divenni il gestore della banca dati. Quando Borsellino tornò a Palermo da procuratore aggiunto, ricordo che andò a lavorare al secondo piano, mentre io rimasi all’ammezzato. Allora quando aveva bisogno di una ricerca importante, particolare, il dottore scendeva nel mio ufficio e mi parlava a voce. Per tutte le altre ricerche, quelle normali, mi telefonava. Un giorno, circa una settimana prima della strage di Capaci, mi viene a trovare e mi dice testualmente: Giovanni, hai niente su Berlusconi?

Su Berlusconi?
Risposi: ma chi è? Mi fece pure il nome di Dell’Utri, ma non mi diceva molto. Però poi quando sentii il nome di Mangano, che io già conoscevo per le indagini su Spatola, dissi: posso cercare. Trovai parecchia roba su Mangano ma lui insisteva su questo Berlusconi. Cerca, cerca, cerca, finalmente – anche grazie a una dritta – trovai un rapporto della Finanza di Milano, se non ricordo male. Era indicizzato in modo errato, cioè era stato inserito male nel computer perché i nomi di Berlusconi, dei fratelli Dell’Utri si trovavano solo all’interno del documento, ma non erano nella lista degli indagati. Quindi erano difficili da trovare.

Cosa fece con quel rapporto?
Erano due volumi, li lessi e ne stampai le parti più importanti. Stampai pure il tabulato della ricerca e glielo consegnai.

I risultati di quella ricerca sono i fogli che Borsellino consulta durante l’ormai nota intervista con i due giornalisti francesi?
Esattamente, ma io lo avrei saputo molti anni dopo, quando appunto quell’intervista andò in onda per la prima volta. Su quella storia mi è successo un altro fatto strano.

Quale?
Dopo anni, quando cominciò il processo a Dell’Utri, uno degli avvocati dell’ex senatore mi fermò davanti al Palazzo di giustizia. Aveva in mano il tabulato della ricerca che io avevo fatto per Borsellino e mi chiese: ma questo Paparcuri qua è lei? Risposi di sì. La cosa finì là, ma mi incuriosì quell’episodio. Col senno di poi, ma è solo un mio pensiero, credo che Borsellino prima di venire da me avesse parlato con Falcone, che all’epoca era a Roma agli Affari penali del ministero della Giustizia.

Dice? E perché?
Perché non mi disse di fare una ricerca in modo rituale, ma chiese quasi a botta sicura: tu hai qualcosa su Berlusconi? Dopo anni, nel 2017, sfogliando le carte di Falcone sulle vecchie dichiarazioni del pentito Francesco Marino Mannoia trovai quel suo appunto inedito proprio su Berlusconi.

In quel foglietto c’era scritto: “Cinà in buoni rapporti con Berlusconi. Berlusconi dà 20 milioni a Grado e anche a Vittorio Mangano”.
Esattamente, per questo col senno di poi ho pensato: vuoi vedere che Borsellino aveva parlato con Falcene prima di venirmi a chiedere di fare quella ricerca su Berlusconi? Io quell’appunto l’ho trovato per caso, anche se poi mi hanno accusato di averlo fatto uscire per motivi politici. A me della politica è sempre fregato molto poco.

Il bunker oggi

Perché Borsellino viene ucciso in quel modo? E solo 57 giorni dopo Falcone?
Non lo so, credo sia stato un omicidio preventivo. Io mi ricordo, perché c’ero, che in quei 57 giorni era molto preoccupato ma non si fermava mai un momento. Seguiva le indagini sulla strage di Capaci e questo mi consta personalmente perché mi assegnò non ufficialmente a quel magistrato, Pietro Vaccara.

In che senso “assegnò non ufficialmente”?
C’era questo magistrato assegnato a Caltanissetta per indagare su Capaci. Borsellino mi chiese di aiutarlo. Spiace doverlo dire, ma Vaccara non era proprio all’altezza. La prima cosa che mi chiese furono le dichiarazioni di Buscetta. Vaccara non sapeva nulla di mafia e a Borsellino questa cosa faceva rabbia. E non lo nascondeva, se ne lamentò anche pubblicamente. Disse più volte che voleva essere sentito dalla procura di Caltanissetta come testimone ma nessuno lo ha mai ascoltato. Comunque secondo me qualcosa di importante per Borsellino è successo un mese prima della strage di via d’Amelio, tra il 18 e il 19 giugno.

Cioé?
In quei giorni passai a salutarlo, a scambiare due chiacchiere. Lui mi guardava e non mi vedeva: con lo sguardo mi attraversava. Chissà a cosa pensava. Una situazione surreale. Ancora peggio dieci giorni dopo, il 29 giugno, quando andai a fargli gli auguri per l’onomastico. Lui mi guardava, muto. Boh. Un silenzio di tomba, mi salvò dall’imbarazzo l’arrivo di un suo collega. Poi lo incrociai qualche volta ma non si fermò mai a parlare, si vedeva che voleva stare da solo con i suoi pensieri.

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Borsellino, l’isolamento di chi fa il suo dovere è una vergogna che non deve mai più ripetersi

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