di Andrea Reale*

“Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro, né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia” (G. Falcone)

Il 23 maggio 1992 Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della loro scorta rimanevano vittime della cosiddetta strage di Capaci. Ventotto anni fa il peggior nemico dei magistrati erano la mafia e l’anti-Stato, inteso come quel pezzo dello Stato che si genufletteva davanti al crimine organizzato, o inciuciava con esso, per salvare i privilegi dei potenti e il malaffare.

Oggi il pericolo maggiore per i colleghi di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino non proviene dall’esterno, da eclatanti e clamorosi attentati di enorme impatto mediatico. Oggi l’avversario è interiore, è invisibile, corrosivo, come un virus o un tumore. Esso mina la prerogativa fondamentale del loro status: l’indipendenza interna.

La malattia si chiama “correntismo” ed è stata disvelata in modo eclatante da numerosissime intercettazioni telefoniche captate sul telefono di un potente uomo di corrente: essa è un coacervo di amicizia interessata, di clientelismo, di soggezione, di intimidazione, di ambizione, di carrierismo, di vanagloria.

La sua inesauribile pervasività ha intaccato irreversibilmente l’indipendenza interna dei magistrati, intesa come soggezione esclusiva alla legge e come distinzione dei magistrati soltanto per le funzioni svolte. Può essere capace di condizionare persino l’esercizio imparziale della giurisdizione, infarcendo di ideologia o di opportunismo le doverose attività del magistrato o le sue decisioni.

I momenti di massima espansione del “correntismo” sono due: quello delle nomine in incarichi apicali e “la spada di Damocle” del procedimento disciplinare. Essi si giustappongo ai due sentimenti che più di tutti un magistrato dovrebbe mettere a freno: l’ambizione (e la speranza di un vantaggio di qualsiasi natura) e la paura (o un qualunque timore di ritorsioni). Oggi questo binomio passionale sembra diventato il principale patrimonio genetico del magistrato burocrate.

Quali rimedi ai nemici della magistratura libera e indipendente?

Come negli anni Novanta del secolo scorso, le armi contro questa degenerazione non possono essere le bombe o la violenza (anche verbale), ma soltanto una profonda terapia culturale, etica, deontologica, disciplinare. L’unica rivoluzione capace di vincere questo infido coronavirus è la dissociazione dal “sistema”, il rifiuto della mentalità del favore e del clientelismo, la capacità di non rimanere indifferenti e silenti davanti agli abusi e alle storture del malaffare correntizio.

Unica cura valida e unico vaccino capace di immunizzare dalla malattia sono: la parola di denuncia e di condanna, l’indignazione, la proposta di rimedi concreti e risolutivi (“il bisturi”, come suggerisce la migliore scienza medica). Oggi il silenzio e l’indifferenza di molti davanti agli abusi e alle illegalità del correntismo uccidono l’indipendenza e l’autonomia di tutta la magistratura e fanno più morti che la mafia negli anni ’90.

Cosa Nostra ammazzava singoli magistrati, ma il corpo sano sapeva riprendersi, curarsi le ferite, rigenerarsi e combattere con maggiore veemenza il nemico. L’apatia e l’incapacità di una reazione corale al virus che serpeggia oggi nella categoria, invece, massacrano le prerogative costituzionali di tutti i magistrati, mettono a nudo il “ventre molle” dell’Ordine giudiziario, consentendo all’agente patogeno di aggredire sempre più il corpo, corroderlo, inaridirlo, farlo deperire.

Per vincere le ostilità avversarie ci vogliono, dunque, impegno e denuncia. Oggi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, se fossero vivi, si vergognerebbero di essere ricordati e celebrati ipocritamente da certi magistrati incapaci di fare sentire la loro voce contro le angherie e i soprusi del malaffare interno. E, molto più sommessamente, mi vergogno anche io di potermi dire collega di Uomini come loro.

*magistrato del tribunale di Ragusa

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