di Claudia De Martino*

È paradossale assistere al coro di reazioni scomposte all’annuncio del nuovo governo israeliano sull’imminente annessione della Valle del Giordano, che sarà realizzata al termine dell’attuale transizione dovuta all’emergenza Covid-19, ovvero dal 1° luglio prossimo.

L’Unione Europea, moralmente indignata, ha dichiarato che ricorrerà a tutti i mezzi diplomatici in suo possesso per dissuadere il Governo israeliano da questa scelta definita come un’azione illegale e unilaterale, in modo non dissimile da altre azioni passate di Israele che però non sono mai state oggetto di alcuna sanzione ufficiale.

Tra tutte spicca l’annessione di fatto di Gerusalemme est nel 1967, poi ufficializzata 13 anni dopo (1980), che sollevò un coro di proteste da parte della comunità internazionale e in sede Onu, ma senza sfociare in alcuna risoluzione vincolante del Consiglio di Sicurezza Onu contro Israele.

Non è improbabile che anche stavolta la reazione europea, per quanto idealmente improntata al rispetto del diritto internazionale, assuma caratteristiche analoghe, sfociando in proteste diplomatiche clamorose quanto prive di effetti concreti. Questo sempre che l’Unione riesca a trovare una quadra al suo interno, con la Germania e il gruppo Visegrad – in particolare l’Ungheria – che, per ragioni diverse, premono per una risposta più annacquata.

Stupisce di più il comportamento dei diretti interessati – israeliani e palestinesi – che dovrebbero polarizzarsi su una questione considerata dagli osservatori esterni come una scelta senza ritorno. Nondimeno, entrambe le parti minimizzano l’evento, riducendolo a una tra le tante questioni che oppongono i due popoli, e nemmeno la più importante. Com’è possibile che sussista uno scarto così ampio tra la percezione internazionale e “interna” di un evento come l’imminente annessione?

La propaganda israeliana sostiene a ragione che si tratti di un’azione in profonda continuità con il passato: il Mandato britannico avrebbe destinato tutta la Palestina mandataria alla creazione di un focolare ebraico alla conferenza di San Remo (1920), e la Cisgiordania sarebbe stata legittimamente conquistata dall’esercito israeliano in una guerra di autodifesa nel 1967.

Non si tratterebbe, dunque, di un’annessione – termine che veicola contenuti negativi, riecheggiando la recente occupazione russa della Crimea e altre azioni illegali a carattere istantaneo e violento – ma della pacifica quanto graduale “estensione” della sovranità israeliana ad aree che di fatto già appartengono allo Stato ebraico e sono da esso amministrate da anni.

In sintesi, la presunta annessione da parte israeliana costituirebbe piuttosto una regolarizzazione della situazione esistente: un atto di chiarezza istituzionale piuttosto che di sovvertimento dello status quo. Il fatto che l’azione sia intrapresa senza l’accordo della controparte, poi, non significherebbe nulla, essendo Israele regolarmente responsabile dell’area C secondo gli Accordi di Oslo.

Ancora più sorprendente è, però, la totale mancanza di reattività da parte palestinese. Le reiterate dichiarazioni rilasciate a caldo dal Presidente Mahmoud Abbas sulla volontà di sospendere la cooperazione in materia di sicurezza con Israele, rilanciando il dialogo con il suo avversario Hamas, finora sono rimaste lettera morta.

L’ottuagenario presidente dell’Anp, che ha visto sgretolarsi qualsiasi prospettiva di costruire un proprio Stato accanto a Israele ma non ha mai modificato la propria adesione agli Accordi di Oslo, e che teme più di tutto la propria incombente successione, non sembra essere personalità adatta a operare uno strappo radicale nell’acquiescente linea politica ostinatamente perseguita finora.

Ancora più spregiudicatamente, il suo concorrente Hamas nemmeno considera l’imminente annessione un ostacolo a stringere con Israele l’accordo segreto sullo scambio di prigionieri attualmente in corso: scelta certamente foriera di vantaggi concreti per il governo della Striscia, ma che testimonia sia l’estremo pragmatismo della leadership islamista che la disgregazione in cui versa l’identità nazionale palestinese.

Anche per la società civile palestinese, l’annessione sembra rappresentare solo l’ultimo, e nemmeno il più grave, tassello di una serie di soprusi, destinato a non alterare granché la quotidianità dei cittadini comuni. Salem Barahmeh, direttore esecutivo del Palestine Institute for Public Diplomacy, spiega come l’annessione sia stata un processo continuo e strisciante perseguito scientemente dalle autorità israeliane fin dal 1967, e non possa identificarsi con un’azione unica, isolata nello spazio e nel tempo.

Per la generazione palestinese che oggi ha 20 anni (la maggioranza della popolazione), l’unica realtà mai conosciuta è quella di un’Autorità Nazionale Palestinese a tratti autoritaria che governa sul 18% effettivo del territorio della Cisgiordania (l’area A), di colonie israeliane in continua espansione sulle colline e vicino ai bacini naturali, di strade costruite ad uso e consumo dei soli coloni, di una totale separazione con la Striscia di Gaza, di una lotta fratricida insanabile tra i due principali partiti, il filo-islamista Hamas e il filo-nazionalista al-Fatah, di check point per entrare in Israele, di raid notturni a seguito di attentati e blocchi temporanei imposti durante le festività ebraiche.

In sintesi, l’annessione è un film già visto: a credere che costituisca uno spartiacque storico rimane solo un’Unione europea che vorrebbe una realtà diversa da quella che è, ma senza possibilmente giocarvi alcun ruolo.

*ricercatrice ed esperta di questioni mediorientali

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