di Francesco Pastore, Francesco Giubileo e Mario Giaccone

La crisi Subprime nel 2008, causata dello scoppio della bolla immobiliare, ha prodotto devastazioni nella società e nel tessuto produttivo in molti paesi anche a causa del fatto che per oltre 40 anni quei paesi avevano già assistito ad un indebolimento del modello di welfare in nome della deregulation iniziata nel Regno Unito dalla Lady di ferro, Margaret Thatcher, e proseguita in tutti i paesi occidentali da altri governi influenzati dall’ideologia neoliberista divenuta nel frattempo egemonica.

Nel caso italiano, la situazione appare ancora più drammatica, data la quasi completa scomparsa dell’industria science-based nazionale (basti citare Olivetti o i laboratori Cselt). C’è stata una sorta di “sciopero” degli investimenti dagli anni 90 in poi, anche quelli in formazione/aggiornamento professionale. Le organizzazioni produttive non si sono evolute in senso partecipativo e democratico, ciò che sarebbe stato necessario per cogliere le opportunità delle Ict.

Questi fattori hanno contribuito a generare una stagnazione della produttività per 25 anni: solo un quinto del nostro tessuto produttivo è attrezzato per le nuove sfide e, a parte pochi “giganti”, come ad esempio Luxottica e Ferrero, è esposto agli appetiti predatori di gruppi industriali più strutturati, anche se meno ingegnosi. La maggior parte delle innovazioni sono di tipo incrementale, in settori maturi o al più di media tecnologia.

Un’ulteriore conseguenza di questa stagnazione degli investimenti e dell’innovazione è una fuga di cervelli che dura ormai da 30 anni e diviene sempre più massiccia.

All’origine vi è la difficoltà di una crescente offerta di capitale umano, dovuta alla crescita della percentuale dei laureati e diplomati, che non trova sbocco di mercato per la presenza di un tessuto produttivo caratterizzato da imprese in prevalenza di piccole e piccolissime dimensioni, tecnologicamente e organizzativamente arretrate, guidate spesso da non laureati e perciò poco propensi a valorizzare le competenze talvolta più alte dei giovani. Ciò si riflette anche, in senso lato, in un impoverimento drammatico della vita civile ed economica.

È probabile che la pandemia provocherà un tracollo di molte imprese importanti, in quasi tutti i settori produttivi. Si tratta di una crisi che richiama alla memoria una combinazione tremenda: l’influenza spagnola del 1919 e la conseguente crisi sanitaria, da un lato, e il crollo di Wall Street del 1929 come crisi economica, dall’altro.

Serve una svolta decisa ed è bene pensarci fin da ora. Noi ci concentriamo su tre aree: in primo luogo, una politica industriale fortemente orientata all’innovazione, con una terapia d’urto che faccia rientrare un po’ di cervelli; in secondo luogo, una rivoluzione nel mondo dell’istruzione, coordinata con politiche attive del lavoro orientate a finalità pubbliche; e, in terzo luogo, una ricostruzione civile e sociale dell’Italia per ricreare un clima di fiducia, poiché senza collaborazione e fiducia non c’è benessere sostenibile.

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