Papa Francesco sostiene che sia “forse giunto il momento di pensare a una forma di retribuzione universale di base che riconosca e dia dignità ai nobili e insostituibili compiti che svolgete”. La frase, contenuta nella sua lettera pasquale ai movimenti popolari pubblicata da Avvenire, risolleva una storica questione: il Reddito Universale di Base (RUB). Una questione che la pandemia ripropone con urgenza all’umanità.

A differenza del reddito di cittadinanza, temporaneo e limitato da vincoli vari – alcuni perfino velleitari – il RUB o Reddito Minimo Universale è una erogazione monetaria, regolarmente distribuita a tutti i cittadini e residenti, cumulabile con altri redditi, indipendente dall’attività lavorativa, dal sesso, dal credo religioso e dalla posizione sociale. E viene erogato durante tutta la vita del soggetto.

Il RUB ha una lunga storia alle spalle che risale al Sistema Speenhamland, dal nome dal villaggio inglese dove, nel 1795, fu promulgato il Berkshire Bread Act, mirato ad alleviare il pauperismo, finora irrisolto dalla Poor Law, la legislazione a favore dei poveri varata sotto il regno di Elisabetta I (1601 – nell’immagine in alto).

Nel 1795, un gruppo di magistrati si era riunito nel villaggio inglese di Speenhamland alla ricerca di una soluzione alla profonda crisi sociale causata dall’aumento vertiginoso del prezzo del grano. L’esplosione della povertà, anche tra i lavoratori occupati, aveva toccato livelli insostenibili. Il sistema sociale dell’epoca, fondato sulla legge elisabettiana, divideva gli adulti indigenti in tre gruppi: gli abili che potevano lavorare, i disabili che non potevano, e i “poveri inattivi” che volevano farlo. Mentre abili e disabili erano aiutati dalle parrocchie, i poveri inattivi erano forzati a lavorare, spesso con modesti risultati, o, nella maggior parte dei casi, trattati come si trattavano all’epoca i barboni. A bastonate. Con l’aumento di prezzo dei generi alimentari, le parrocchie erano sommerse dalle richieste di aiuto. E “sollecitare” gli inattivi si era tramutato in un compito smisurato e ingestibile.

Con la diffusione del sistema Speenhamland la popolazione inglese quasi raddoppiò. Come ricorda Thomas Heller su The Atlantic, secondo Thomas Malthus i sussidi alla povertà avevano consentito alle coppie di mettere su famiglia prima che fosse permesso dai loro guadagni. Il suo contemporaneo David Ricardo lamentò che questo modello avesse prodotto una perdita di prosperità. Più tardi, Karl Marx attaccò frontalmente il sistema perché abbassa il salario dei lavoratori, mentre Karl Polanyi, storico dell’economia, individuò in Speenhamland il peccato originale del capitalismo industriale, perché aveva reso irrilevanti per il mercato del lavoro le classi sociali più basse; e ciò era accaduto mentre si stavano affermando i nuovi meccanismi di produzione. Dopo che il sistema fu abolito nel 1834, la povera gente fu avviata alle workhouse di dickensiana memoria, istituzione che in Italia prese il nome di Albergo dei Poveri.

Se l’emergenza di Speenhamland era legata a guerre e carestie, l’emergenza odierna è l’impatto planetario del coronavirus, ma non solo. Bussano alla porta i robot, la telematica e l’intelligenza artificiale, che provocheranno una ulteriore perdita dei posti di lavoro che non sono finora svaniti. E metteranno in crisi il lavoro stesso come simbolo d’identità personale e l’istruzione come ascensore sociale.

Come ha scritto Frank Field sull’Economist del 2018, “un Reddito Universale di Base richiederebbe un aumento delle proporzioni gigantesche (e insostenibili) della pressione fiscale”. Nessuno dubita che la crisi innescata dalla pandemia del coronavirus reclamerà uno sforzo pubblico immane per sostenere le economie di tutto il mondo, fondate su un modello di consumi che la pandemia ha stravolto. Questo sforzo graverà per forza, prima o poi, sui cittadini contribuenti.

L’istituzione del Reddito Universale di Base è una delle opzioni in campo. L’efficacia di questa misura richiederebbe però un’applicazione a scala globale o almeno continentale, non esclusivamente nazionale. Così come qualunque altra iniziativa per una rinascita condivisa. E, parafrasando Paul Valery, il guaio è che la rinascita non più quella di una volta.

Recluso ciascuno in casa propria, anche un piccolo gruppo di giovani e meno giovani appassionati dilettanti (dai 20 ai 70 anni) si è cimentato con una versione contemporanea dell’inno di John Henry Newton (1779) che Andrea Bocelli ha mirabilmente interpretato in Duomo a Milano. Anche la nostra versione pasquale del 2020, Amazing Grace the Virus Fight, è un augurio di speranza.

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