Le inondazioni erano iniziate il 21 ottobre 2019. Dopo un periodo di forti piogge, erano esondati vari corsi d’acqua, compreso l’Ubangi che attraversa la capitale Bangui prima di confluire nel fiume Congo. Migliaia di case erano state distrutte e il disastro aveva colpito una popolazione molto povera, già in lotta con la fame.

Le inondazioni erano state così gravi e diffuse che perfino nella capitale Bangui la canoa era diventata l’unico mezzo di trasporto. Secondo un rapporto dell’Ocha, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, l’evento aveva coinvolto più di 100mila persone ma, fortunatamente, “per la maggior parte degli abitanti colpiti, l’impatto delle alluvioni si era fatto sentire maggiormente a livello di perdita di oggetti domestici o di degrado dell’ambiente di vita”. Per una volta, il destino non aveva infierito, le vittime dirette erano state poche, la temuta epidemia di colera non si era innescata, come accaduto invece nel 2016.

A tutto il 5 aprile 2020, in tutto il continente africano sono stati registrati poco più di 9.300 casi di coronavirus e molti paesi impongono una serie di misure di prevenzione e contenimento contro la diffusione della pandemia. Secondo gli ultimi dati della John Hopkins University e dell’Africa Center for Disease Control on Covid-19, c’è molta incertezza sulla ripartizione dei casi ma la diffusione del virus è senza dubbio in crescita in tutto il continente, dove solo tre paesi sembrano finora immuni (il Lesotho e due stati insulari, São Tomé e Príncipe e Comore). Nella Repubblica Centrafricana i casi registrati finora sono soltanto otto.

Pochi giorni fa, il Norwegian Refugee Council ha avvertito la comunità internazionale come quel paese sia del tutto impreparato a fronteggiare la diffusione del virus. In tutta la Repubblica Centrafricana sono disponibili solo tre ventilatori per tentare di salvare la vita a chi contrae il virus in forma grave. “Covid-19 ha il potenziale per diffondersi con la velocità di un lampo se la Repubblica Centrafricana non sarà adeguatamente supportata per proteggersi adeguatamente dal virus. Tre ventilatori in un paese di cinque milioni di persone sono l’anticamera della catastrofe”.

La Repubblica Centrafricana è uno dei paesi meno preparati ad affrontare la pandemia, con più di due milioni di persone che, già ora, reclamano assistenza sanitaria. Gli sfollati sono quasi 700mila, metà dei quali vivono in campi densamente popolati; con scarso accesso ad acqua, servizi igienico-sanitari, strumenti d’igiene personale e collettiva. E, senza un sostegno più robusto da parte della comunità internazionale, in questi campi uno scoppio della pandemia potrebbe risolversi in una catastrofe.

Il Covid-19 farà crescere la domanda di aiuto da parte di paesi che già dipendono fortemente dall’assistenza esterna come la Repubblica Centrafricana, dove il 70% dei servizi sanitari è sostenuto dalle organizzazioni umanitarie. La sospensione dei voli commerciali e del trasporto internazionale delle merci potrebbe avere un forte impatto sulla capacità di risposta di queste organizzazioni. Sarebbe perciò fondamentale mantenere le infrastrutture necessarie ad assicurare le forniture e accogliere i volontari, indispensabili a garantire il proseguimento delle operazioni di soccorso.

Le alluvioni che stanno tuttora flagellando il continente (solo a marzo, hanno colpito in Zambia, Burundi, Congo, Angola, Malawi, Ruanda, Namibia e Zimbabwe) produrranno altri profughi che intaseranno proprio quei campi dove il virus si può diffondere facilmente. Secondo l’Ocha, le inondazioni tardo autunnali del 2019 hanno coinvolto oltre 2,8 milioni di persone in Africa orientale. Le violente piogge hanno scatenato inondazioni e frane. Case e infrastrutture sono state distrutte o danneggiate e il colera si è diffuso in modo preoccupante. Le epidemie e i disastri naturali, alluvioni e terremoti, sono spesso oggetto di terribili effetti di retroazione positiva, quando i risultati del sistema amplificano la risposta del sistema stesso – tipico esempio: l’effetto Larsen terrore dei dj.

In Africa la diffusione delle epidemie, con effetti devastanti per le popolazioni, è una costante storica. Il dottor James Christie, uno dei primi studiosi a documentare le quattro epidemie di colera che devastarono il continente dal 1835 al 1871, scrisse sul Lancet che “le carovane di avorio e schiavi che partono da Quiloa (oggi Kilwa) e Pangani (distretto nel nord-est della Tanzania) si muovono in tutte le stagioni, e di conseguenza quelle che partono da distretti infetti portavano con sé la malattia lungo il loro percorso”.

Chiudere le linee di possibile trasmissione del contagio, come accade nel resto del mondo, è quindi una misura essenziale per evitare una catastrofe umanitaria. Nello stesso tempo, come possono giungere gli aiuti umanitari, a confini chiusi?

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