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di Andrea Giannotti

Negli ultimi anni il fenomeno dell’immigrazione africana ha dato man forte alla causa dei movimenti nazionalisti del Vecchio Continente, con un’ascesa imponente dei “difensori della patria e dell’identità nazionale”. Tralasciando il dibattito politico a riguardo, il drammatico periodo che i paesi europei sviluppati stanno vivendo a causa del Covid-19 dovrebbe focalizzare l’attenzione su un dato significativo.

Fino a poche settimane fa, quando il virus faceva minacciosamente e silenziosamente ingresso in Europa, la fazione nazionalista già puntava il dito sui migranti, per paura delle malattie “trasportate” sui barconi. A tal proposito, già nel 2019 l’Oms e l’Inmp redassero un rapporto pubblico che dimostrava come l’insieme dei migranti in Europa (rappresentante solo il 10% della popolazione continentale) raramente possa trasmettere malattie alla popolazione del paese ospitante. Addirittura, si spiega, sono i migranti stessi, una volta arrivati, ad essere più soggetti a contrarre malattie a causa del cambiamento di vita, abitudini e ambiente. Ad ogni modo, nella nuova era del Covid-19 ci ritroviamo con un’Europa ampiamente infetta e un’Africa (sorprendentemente?) agli inizi del contagio.

Se questo stato delle cose è dovuto al caso oppure al fatto che il Covid-19 sia un “virus borghese” che attecchisce nei paesi più sviluppati e con un certo tipo di ambiente/clima, è e sarà oggetto di studio per la ricerca. Rimane il fatto che i dati dicono che all’inizio della pandemia l’Africa – dalla cui costa settentrionale sono continuati ad arrivare diversi barconi e 13 paesi della quale, si conta, sono in stretti rapporti economici con la Cina – non era infetta e che il “paziente zero” non era (e non è) da ricercare in un migrante africano.

È vero, il virus è partito dalla Cina, ma non si sa chiaramente nemmeno come esso abbia fatto ad arrivare da lì in Europa. Neppure i cinesi residenti in Europa, vittime di diversi casi di razzismo, sarebbero da incolpare per la diffusione del Covid-19 (basti pensare a Prato che, con una comunità cinese molto significativa al suo interno, rimane tra le città toscane con più basso numero di contagi). Insomma, è dura (per alcuni) guardarsi nei nostri “occhi europei” e ammettere che gli untori, per quanto ne sappiamo, siamo noi.

Ma, tornando all’Africa, la Covid-19 Map della Johns Hopkins dimostra che, ad oggi, nessuno stato africano (ad eccezione del Sudafrica) supera i 1.000 contagiati (Marocco, Algeria ed Egitto si stanno avvicinando al primo migliaio). Si potrà ribattere che la situazione economica, sanitaria e politica di molte nazioni africane non può garantire un controllo e una registrazione dei contagiati paragonabile ai servizi dei paesi europei.

Tuttavia, se l’Africa avesse uno stato pandemico come il nostro, la notizia (nonché la situazione) non passerebbe inosservata e come i loro numeri potrebbero essere “falsati” così sappiamo che i nostri (a quanto ci dicono i virologi esperti) potrebbero essere almeno cinque volte più alti. Sappiamo, inoltre, che il primo contagiato (a metà febbraio) era uno straniero di 33 anni in Egitto e che diversi dei successivi casi registrati in Africa sono individui arrivati dall’appestata Europa.

L’Africa sta iniziando solo ora ad affrontare un virus che, a giudicare da quello che sta facendo a noi europei (“i più tecnicamente assistiti” direbbe Umberto Galimberti), potrebbe rappresentare una tragedia devastante. Burkina Faso, Sierra Leone e Congo sono solo alcuni dei paesi più a rischio, a causa delle loro già drammatiche condizioni socio-sanitarie.

Se in Europa e negli Stati Uniti già parliamo di strage, immaginiamoci quale potrebbe essere il destino di un continente che per anni è stato dilaniato da guerre interne e che, dall’uomo bianco, è stato più sfruttato che assistito. Questa volta sarà davvero il caso di “aiutarli a casa loro”, ma in grandi numeri e a fatti, non a parole o per indifferenza.

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