Come quando un fastidioso rumore del motore ci costringe ad aprire il cofano della macchina mostrandoci un mondo prima sconosciuto, così un evento epocale come il coronavirus apre degli squarci inconsueti sulla nostra società.

Due nipotini di cinque-sei anni salutano i nonni dalla finestra del terzo piano, “Non possiamo scendere” dicono, “ e noi non possiamo salire”, fa la nonna, “veramente io non voglio salire, non vorrei ammalarmi” aggiunge il nonno. “Va bene, ma quando il virus finisce torniamo a dormire da voi!” concludono i bambini.

C’è chi interpreta le raccomandazioni della sicurezza con spavalderia e superficialità, mostrandosi scettico ed evitando di credere alle “catastrofiche” notizie dei telegiornali, continuando ad affollare pub, centri commerciali o i circoli bocciofili dove una birretta passata di mano in mano o una partitella a carte a distanza ravvicinata, corredata da urli, tosse e starnuti, non può farci alcun male, anzi ci distrae. Costoro sono inclini a un pensiero magico, considerano le regole esagerazioni, sfoggiano un sorrisetto spavaldo e sprezzante per chi si mostra disciplinato.

Altri invece portano lo scrupolo all’eccesso, non esistono interpretazioni ma solo dettami da seguire alla lettera. Per i primi la trasgressione è vitale, non leggeranno mai un libretto di istruzioni ma andranno per tentativi ed errori anche quando l’errore può essere fatale. I secondi hanno un animo deterministico, in cui il mondo segue una procedura logica che non può essere trasgredita. I primi non saranno mai buoni soldati anche se potranno essere protagonisti di imprese eroiche, i secondi saranno la forza delle armate che marceranno come un sol uomo.

Ma questa epidemia, con l’identificazione delle zone rosse, introduce un altro elemento: l’ansia di non poter attraversare i confini, la paura di non poter disporre, a proprio piacimento, della vicinanza dell’altro, delle persone della propria famiglia di origine. Ormai è usuale per i giovani studiare o lavorare fuori del loro luogo di nascita, ma il cordone ombelicale rimane attaccato alla propria terra, alle proprie origini, ed è importante che le vie di ricongiungimento vengano lasciate aperte.

Di notte alla stazione di Milano le persone si affollavano per tornare a casa prima di rimanere bloccate. Probabilmente erano le persone più giovani della famiglia, i migranti interni, coloro che avevano avuto la forza di uscire da un paese o da una regione che offriva meno per cercare lavoro o andare a studiare in una regione con maggiori opportunità, persone che in quel momento sentivano l’urgenza di ricongiungersi alla famiglia o per proteggere o per essere protetti prima di essere bloccati da qualcosa di invisibile, misterioso e terrorizzante che stava accadendo.

L’individualismo prevale sul bene collettivo, non importa se il nostro desiderio di riunificazione ci rende untori di una società ancora sana. E’ un’immagine, a mio avviso, della famiglia italiana centrata sull’aiuto reciproco, sul mutuo soccorso economico e affettivo. Bene o male, l’Italia è un paese basato sulla famiglia, regolare, irregolare, unita, divorziata, stratificata, patriottica o multietnica, ma sempre famiglia.

Questa dimensione di restrizione della libertà, del tutto nuova per noi, potrà forse temprare gli animi di genitori e figli stimolandone l’autonomia, più sviluppata in altre nazioni europee, ma, come tutti gli eventi di passaggio, ci fa sentire in una atmosfera sospesa, surreale. La mente corre a quei paesi dove i diritti umanitari sono messi in discussione, ai tentativi di fuga, alla ricerca di un rifugio e di una accoglienza, alle migrazioni forzate, con mezzi rischiosi e insicuri, alla perdita di riferimenti durante il viaggio.

Credo che l’accettazione del rischio da parte di chi fugge sia la dimostrazione dell’entità della sofferenza in cui si è costretti a vivere. Forse adesso, però, possiamo sentire meglio quello che provano queste persone, possiamo identificarci un po’ di più con chi fugge da una Milano ben più atroce della nostra, per sentire alla fine del viaggio non una famiglia (nazione) accogliente, ma un porto non ospitale e ostile. Possiamo capire un po’ più dall’interno il dolore che proviamo nel sentire che in mezzo a tante persone ci sono “bambini non accompagnati” e immaginarci che proveranno, in misura ben maggiore della nostra, lo stesso senso di spaesamento che per un attimo abbiamo provato anche noi.

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Coronavirus, al telefono la voce che trema di mio padre mi ha tolto il fiato

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