Tra gli ultimi dati comunicati dal capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, c’è quel 4,25% di deceduti (al 6 marzo) rispetto ai contagi da Coronavirus nel nostro Paese. Ed è un dato che desta preoccupazione. Proprio per questo è necessario chiarire cosa rappresenti davvero quella percentuale e se si possa davvero parlare di “tasso di mortalità” del Covid19. Ilfattoquotidiano.it lo ha chiesto al virologo Fabrizio Pregliasco, direttore sanitario dell’Istituto Galeazzi di Milano e docente di Igiene all’Università Statale, secondo il quale “un tasso che supera il 4 per cento è sicuramente un dato sovrastimato, perché di qualsiasi epidemia si tratti, è tipico che i casi identificati siano inferiori a quelli reali”.

NON CONOSCIAMO I DATI REALI – D’altro canto questo virus è caratterizzato da forme di sintomatologia non grave. “Molte persone, in Italia e nel mondo, hanno contratto il Covid19 senza neppure rendersene conto – aggiunge Pregliasco – e probabilmente questa è stata la causa della diffusione dell’epidemia”. Quanti contagiati potrebbero esserci davvero nel nostro Paese? “Generalmente nelle epidemie i contagi registrati vanno moltiplicati anche fino a dieci volte”.

Questo significa una cosa: non possiamo parlare di tasso di mortalità del virus, perché non abbiamo e, forse, non avremo mai il dato reale, ma solo di tasso di mortalità tra i contagiati che il sistema sanitario è riuscito a identificare”. Che in questa fase, superato il boom iniziale di tamponi eseguiti anche a chi non presentava sintomi e non veniva da aree più a rischio, sono quelli che hanno i sintomi più evidenti o che sono stati a stretto contatto con persone contagiate o che vivono in zone rosse.

“L’unico dato abbastanza certo – spiega il virologo – è proprio quello dei decessi, anche se è estremamente difficile, anche con i dati delle autopsie a disposizione, comprendere se queste persone sono morte per il Coronavirus o con il Coronavirus, ma per altre cause. Se prendiamo il dato dei decessi, la mortalità è più alta rispetto all’influenza. Se volessimo calcolare un tasso di mortalità reale con questi criteri, dovremmo dunque tener conto di tutti i contagiati (anche quelli che in questo momento non sanno di esserlo) e dei pazienti effettivamente morti per il virus. Impossibile.

IL CONFRONTO CON GLI ALTRI PAESI – In questi giorni si è anche confrontato il tasso di mortalità in Italia con quello cinese e con quello mondiale. Secondo quanto ha affermato il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus “a livello globale si arriva al decesso in circa il 3,4% dei casi di Covid-19. Per fare un confronto, l’influenza uccide meno dell’1% degli infetti”. Ma anche i dati mondiali sono suscettibili di tutti i limiti fin qui osservati. “A incidere sul tasso di mortalità di ogni singolo Paese – spiega il virologo – sono anche le differenze tra i sistemi sanitari dei vari Paesi, che possono essere più o meno preparati per contrastare il contagio”.

MORTALITÀ PIÙ BASSA RISPETTO ALLA CINA – Tornando alla Cina, l’Istituto Superiore di Sanità ha confrontato i dati sulla letalità cinese con quelli italiani, rilevando che la mortalità generale attuale nel nostro Paese “è inferiore a quello che si aveva in Cina nella prima fase dell’epidemia” e che, comunque, per tutte le fasce d’età il tasso di letalità del Coronavirus “in Italia è inferiore anche rispetto a quello che si registra attualmente in Cina”. In Italia, infatti, al 4 marzo la letalità (calcolata come numero di decessi sui casi confermati) tra gli over 80 risulta del 10,9%, mentre in Cina al 24 febbraio (ultimo dato disponibile, estratto dal report della commissione congiunta Cina-Oms) era del 14,8%. Tra 70 e 79 anni, la letalità del Covid19 in Italia è del 5,3%, mentre in Cina dell’8%, mentre tra 0 e 69 è dello 0,5% nel nostro Paese, contro l’1,3% del Paese asiatico. In generale, al 4 marzo (i dati diffusi da Borrelli sono successivi, ndr) in Italia la mortalità era al 3,5%, mentre in Cina al 24 febbraio era del 2,3%.

IL VIROLOGO: “ATTENTI AL 10 % IN TERAPIA INTENSIVA” – Secondo Pregliasco, però, la priorità in questo momento è quella che riguarda i pazienti che devono entrare in terapia intensiva. “Sappiamo che l’80 per cento dei casi identificati – spiega – riporta un’influenza più pesante di quella a cui siamo abituati, mentre il 10% delle persone con sintomi finisce in terapia intensiva”. Ed è questo il dato da tenere principalmente sotto controllo, perché se dovesse aumentare in modo esponenziale e, soprattutto, in modo repentino, c’è il rischio che il sistema sanitario non regga. “In quest’ottica – aggiunge il virologo – va considerato il periodo di incubazione media, che arriva a 14 giorni, e le relative possibilità di contagio. Per questo è importante attenersi alle misure restrittive, anche nelle aree dove finora il numero di contagi è rimasto contenuto”.

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