Trent’anni fa, il 24 febbraio 1990, moriva Sandro Pertini, il presidente della Repubblica più amato, in carica dal 1978 al 1985.

La sua biografia attraversa in pieno i traumi e le cesure del Novecento: partecipa alla Prima guerra mondiale ottenendo la medaglia d’argento al valor militare. Al termine del conflitto si iscrive al Partito socialista unitario ed è un irriducibile antifascista della prima ora. Perseguitato dal regime fascista, emigra in Francia a metà degli anni Venti dove si mantiene lavorando come muratore.

Rientra in Italia, conosce il carcere e il confino per il solo reato di opinione. Partecipa ai primi scontri della Resistenza prendendo parte a una delle più note battaglie, a Porta San Paolo a Roma, nel settembre 1943. Raggiunge poi i vertici politici del movimento di Resistenza e diventa membro del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia dove dirige, assieme agli esponenti degli altri partiti antifascisti, le giornate dell’aprile ‘45 che culminano con la Liberazione.

È eletto alla Costituente nel 1946 con il Partito socialista e per due legislature, dal 1968 al 1976, ricopre la carica di Presidente della Camera. Il punto più alto della sua carriera politica lo raggiunge due anni più tardi, nel 1978, quando con una larga maggioranza diviene il settimo Presidente della Repubblica intercettando nel suo mandato un altrettanto ampio consenso fra la popolazione.

Un uomo coerente che ha sempre pagato un alto prezzo per le sue posizioni. Un idealista mai scalfito dalle persecuzioni, con il suo tratto intransigente e allo stesso tempo profondamente umano: “un uomo è un uomo quando vince il dolore e non tradisce la propria idea”. Ha 82 anni quando si insedia al Quirinale, il buonsenso di chi ne ha viste tante, la battuta pronta e una schiettezza che gli altri politici non hanno.

Come presidente non assomiglia a nessuno dei suoi predecessori. Non è il notaio Giovanni Leone né l’austero Luigi Einaudi; non è il Giovanni Gronchi che vuole dirigere la politica estera; non conosce le ambiguità di Antonio Segni e Giuseppe Saragat. Con lui si aprono le presidenze mediatiche, un’attrazione calamitante sul Quirinale che, pur con tratti molto diversi, caratterizzeranno anche i mandati successivi di Francesco Cossiga e Oscar Luigi Scalfaro.

Pertini non esprime profonde analisi politiche, ma principi universali esposti a telegramma. Una frase che ha ripetuto più volte, figlia dello spirito della Costituzione, è che “non può esserci libertà senza giustizia sociale e non può esserci giustizia sociale senza libertà” aggiungendo poi che, senza giustizia sociale, c’è solo la libertà di morire di fame. L’uomo è libero se è libero dal bisogno ed è il lavoro a rendere l’uomo libero.

Adora i giovani. Si stima che abbia ricevuto al Quirinale 360.000 bambini delle scuole elementari. Nel lemmario delle parole dei presidenti, in occasione dei discorsi di fine anno, ha usato la parola “giovane” per 95 volte, dietro di lui, a grande distanza, Scalfaro con 31 ricorrenze. Nel suo primo messaggio di fine anno dichiara: “I giovani non hanno bisogno di sermoni, i giovani hanno bisogno di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo”.

Si rivolge ai ragazzi, spesso in forma diretta, come in un discorso faccia a faccia: “Non armate la vostra mano. Armate il vostro animo. Non armate la vostra mano, giovani, non ricorrete alla violenza, perché la violenza fa risorgere dal fondo dell’animo dell’uomo gli istinti primordiali, fa prevalere la bestia sull’uomo e anche quando si usa in stato di legittima difesa essa lascia sempre l’amaro in bocca”.

Sono gli anni cupi non solo del terrorismo, ma delle diffuse violenze di piazza, delle micro guerre civili che infestano soprattutto Roma e Milano. Alla fine del 1979 i richiami si ripetono: “Giovani, se voi volete vivere la vostra vita degnamente, fieramente, nella buona e nella cattiva sorte, fate che la vostra vita sia illuminata dalla luce di una nobile idea”.

Nel giugno del 1981, con un’altra scelta irrituale, si reca a Vermicino per stare vicino a un bambino di 6 anni, Alfredo Rampi caduto in un pozzo artesiano, un episodio sfociato in tragedia che ha tenuto gli italiani con il fiato sospeso per quattro giorni. Qualcuno l’ha anche chiamato “il presidente delle disgrazie” perché non ha mai mancato di offrire il suo conforto ai parenti dei caduti negli atti di terrorismo e nelle stragi o quando, a Padova, veglia le ultime ore di vita del segretario comunista Enrico Berlinguer e uscendo in lacrime dirà: “Lo porto via con me a Roma. Lo porto via, come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta”.

Questo è stato Pertini. Molti lo ricordano nei momenti lieti, quando nella finale dei mondiali di calcio nel 1982, a Madrid, si comporta come un tifoso e non come un presidente, o ancora lo ricordano per la strofa di una canzone di Toto Cutugno: “Buongiorno Italia con gli spaghetti al dente e un partigiano come presidente”. Lo hanno definito un presidente pop, ma nel suo caso non era apparenza e per questo è stato amato.

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