Lourdes. Uno spazio universale, un moto dello spirito, un’idea di terribile sofferenza. Un documentario immersivo e contemplativo sul luogo dell’apparizione della Vergine Maria alla pastorella Bernadette nel 1858 non era mai stato girato. Dalle parti della sacra grotta, venerata ogni anno da 3 milioni di pellegrini, ci era passata Jessica Hausner nel 2009 per girare scampoli del film omonimo di finzione. Apologo spiazzante che proprio attraverso un’improvvisa guarigione/miracolo, e rapido ritorno alla malattia della protagonista, costringeva i presenti attorno a lei nel fare i conti con il conformismo di un luogo, di una pratica generale, di una comune tragica condivisione.

I registi francesi Alban Teurlai e Thierry Demaiziere, invece, propongono una visione classicamente documentaristica, offrendo uno sguardo rispettoso e indulgente verso un fenomeno religioso/spirituale di massa. Un tentativo realistico di seguire pratiche e abitudini di volontari e lavoranti di Lourdes, come di spizzicare e disseminare frammenti dei singoli pellegrini giunti dinanzi a ceri, messe, acque benedette, per poter ottenere un miracolo. Certo, la mamma di un ragazzo, finito su una sedia a rotelle dopo un incidente quando era bambino, prova ad ironizzare: “Siamo in troppi sarebbe come vincere alla lotteria”. Ma il Lourdes di Teurlai e Demaiziere non è un’operazione dal tono sarcastico, dal confabulare interrogativo o oppositivo. La macchina da presa non è lì per indagare fenomeni inspiegabili o per sfottere qualcuno. Semmai lo sguardo è predisposto per farsi sorprendere, la cinecamera per immortalare una stretta di mano, un gesto disperato, una bavetta che esce dalle labbra di un infermo, proprio perché ciò che accade a Lourdes ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, sono quelle cose lì. E non è necessario forzare scandalisticamente la visione né dal lato voyeuristico, né da quello autocensorio. Grazie a questo approccio riguardoso verso il tema/luogo osservato, Teurlai e Demaiziere colgono dettagli banali ed infinitesimali della silenziosa, solenne, reiterata liturgia che riempie e colora a tinte non di certo sgargianti questo brulicante spazio urbano oramai totalmente dedicato ad una manifestazione collettiva di religiosità riconosciuta nel mondo. Solo i cinque secondi dove seguiamo i gesti di una suora nell’agguantare una manciata di ostie da uno scatolone trasparente dell’Ikea ci fa capire cosa significhi filmare senza giudicare.

A questa illustrazione del rito vengono affiancati un insieme di malati che giungono a Lourdes compiendo estremi sacrifici, anche economici, magari solo per sfiorare la roccia della grotta dell’apparizione o immergersi nell’acqua santa. Sui “personaggi” scelti, disseminati in tanti frammenti dispersi dentro al tessuto narrativo generale senza cercare un climax, un apice emotivo, c’è infine un tentativo di mostrare il loro più profondo desiderio di fede. Citare quel pover’uomo malato della sindrome di Lou Gehrig, consapevole della morte che verrà, intento più che all’idea del miracolo a quell’eterno donarsi a Cristo, raggela il sangue nelle vene. In questa ineluttabilità del destino, Lourdes di Teurlai e Demaiziere sembra come demistificare il dato dell’impossibile a favore di un’umanità che in questo viaggio dei miracoli accetta sommessamente e dignitosamente la sofferenza e in alcuni casi la fine come fosse già nota. Una visione consigliata soprattutto a tutti quegli atei distratti come l’estensore di queste righe. Il duo francese aveva precedentemente girato Rocco, il documentario del 2016 su Rocco Siffredi. Nelle sale italiane solo il 24, 25, 26 febbraio 2020.

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