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Anche il tuo vicino di casa ha vinto un disco d’oro? La FIMI ha alzato (non di molto) le soglie: qualcosa (in futuro) potrebbe cambiare

Non che alzare di 10mila copie l’oro e il platino per i singoli cambi poi tanto le cose, ma è un segnale. Anche perché nel frattempo il downloading e soprattutto lo streaming sono due fattori entrati prepotentemente in gioco con un ruoli da protagonisti e con qualche sacca di polemiche e discussioni nel tempo. In particolare lo streaming ha spostato il baricentro dei conteggi. Quanto pesa un click? Quanto pesa una view?

di Alberto Scotti

Il disco d’oro. Uno dei sogni di qualsiasi artista. Un riconoscimento al successo di una canzone o di un album. In passato, il disco d’oro ha sempre significato cifre importanti. Centinaia di migliaia di copie vendute. Non parliamo poi del disco di platino o del disco di diamante, riconoscimenti irraggiungibili per la maggior parte dei cantanti e dei gruppi. Poi però la musica è cambiata. È cambiato il mercato, è cambiato il modo in cui si ascolta la musica, e dopo il 2000 le vendite sono crollate. Così, durante la conversione tra acquisto di dischi fisici e download, e poi in tempi recenti con i conteggi dello streaming, la FIMI (Federazione Industria Musicale Italiana) ha progressivamente deciso di abbassare la soglia entro cui un disco era considerato “d’oro”. Dalle mitiche 100mila copie alle 50mila e poi giù fino alle 25mila copie sancite da una decisione del 1° gennaio 2014. Il platino, invece, era stato fissato a 50mila. Sia per gli album sia per i singoli. Dal 2020 invece i singoli hanno una soglia più alta, di 35mila copie per l’oro e 70mila per il platino, per il raggiungimento della certificazione. Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per la discografia.

Perché negli ultimi anni la soglia davvero troppo bassa per le certificazioni ha fatto sì che queste abbiano perso quel valore, quell’aura di sacralità che davano peso al successo della musica, certificando appunto un risultato dal punto di vita del mercato, dell’industria. In Italia il termine “industria”, riferito alla discografia, è sempre stato visto come una parolaccia, qualcosa che delegittima la statura artistica dei dischi e degli artisti. E negli ultimi anni invece si è ribaltata, pure eccessivamente, questa accezione, con lo strapotere degli uffici stampa e delle agenzie di management, che hanno trovato il modo di fare delle certificazioni una fonte di comunicato continuo, un “fatto notiziabile” qualsiasi risultato, complice appunto il facile raggiungimento degli obiettivi per album e singoli.

Non che alzare di 10mila copie l’oro e il platino per i singoli cambi poi tanto le cose, ma è un segnale. Anche perché nel frattempo il downloading e soprattutto lo streaming sono due fattori entrati prepotentemente in gioco con un ruoli da protagonisti e con qualche sacca di polemiche e discussioni nel tempo. In particolare lo streaming ha spostato il baricentro dei conteggi. Quanto pesa un click? Quanto pesa una view? Aspetti non facili da giudicare con una certa chiarezza. Perché un disco comprato significa, banalmente, soldi spesi, e quindi impegno, fatica, valore reale attribuito alla musica, non soltanto emotività valore affettivo. Qualcosa che si paga rappresenta qualcosa a cui si attribuisce un valore, a maggior ragione se pensiamo che una larga fetta di consumatori di musica sono giovani e giovanissimi la cui disponibilità economica dipende dai genitori ed è da diversi lati limitata. Con la paghetta posso comprarmi solo un certo numero di dischi, e devo scegliere. La scelta impone rinunce. Le rinunce aggiungono valore ai dischi, a causa del sacrificio della scelta.

Oggi tutto questo non esiste più, i dischi si cliccano e ricliccano in loop, l’ascolto è gratuito, il tempo a disposizione parecchio. Dunque, lo streaming vale meno di una copia fisica. Anche perché la gratuità porta anche all’ascolto per pura curiosità: se devo spendere 30 euro per un disco, non li butterò senza la certezza di avere in mano qualcosa che mi piacerà. Se non mi costa nulla, ascolto anche ciò che non comprerei mai. E poi, lo streaming è molto facile da “taroccare”, con diversi sistemi informatici. Non ha, diciamo, un’attendibilità netta come le copie effettivamente vendute. Da cui le discussioni e le polemiche sui criteri di conteggi che si sono protratte a lungo.

Quindi, alzare la soglia per le certificazioni è un’ottima idea, una bella mossa, nella direzione giusta: quella di restituire dignità al premio e di rendere difficile, e quindi più prestigioso, il riconoscimento della certificazione. E può portare, speriamo, a un’altra conseguenza ottima per la salute del mercato: può darsi che finalmente gli uffici stampa smettano la pessima abitudine di diramare comunicati per qualsiasi straccio di disco d’oro, risultato assolutamente banale per un brano anche di medio successo, con 25mila copie di streaming (che con 35mila…).

Non c’è nulla di male a strillare i risultati dei propri clienti e ovviamente ciascuno fa il proprio mestiere, è comprensibile che un’agenzia stampa voglia spingere ogni notizia riguardante i propri artisti. Ci mancherebbe. Ma inflazionare numeri e cifre porta, alla lunga, all’effetto “al lupo al lupo”, per cui tutto diventa ripetuto, noioso, privo di interesse e di senso. Privo di valore. Sarebbe bello se l’inizio del nuovo decennio portasse un po’ di buonsenso e riportasse tutto e tutti a una dimensione ragionevole. Senza la corsa all’annuncio di sold out che sono mezzi sold out, e a dischi d’oro e di platino che sono assolutamente “normali” in molte circostanze. Ragionevolezza che, naturalmente, deve riguardare anche l’altro lato della partita, quella di noi giornalisti e testate, che dobbiamo mantenere a nostra volta una soglia adeguata, alta, degna, delle notizie che vogliamo comunicare.

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