Il quinto salvataggio di una banca nel giro di quattro anni fa di nuovo alzare i toni nella maggioranza che sostiene il Conte 2. Inevitabile, considerato che si ritrovano al governo insieme le due forze – renziani e Movimento 5 Stelle – che sugli istituti di credito in crisi, i risparmiatori impoveriti e i conflitti di interesse connessi si sono confrontate senza esclusione di colpi a partire dal 22 novembre 2015. Quando il governo Renzi mandò “in risoluzione” Banca Marche, Banca Etruria, CariFerrara e CariChieti senza metterci soldi dei contribuenti e imponendo perdite ad azionisti e obbligazionisti subordinati come previsto dalla nuova legislazione europea sul bail in all’epoca appena recepita in Italia. Al netto dello scontro politico, di sicuro c’è che la soluzione tecnica scelta per risolvere il caso della Popolare di Bari è radicalmente diversa dall’intervento del 2015 sulle quattro ex popolari. Perché è previsto uno stanziamento di denaro pubblico fino a 900 milioni di euro e l’obiettivo dichiarato è evitare di imporre costi anche agli obbligazionisti, oltre che ai 69mila azionisti i quali hanno già perso gran parte dell’investimento usciranno quasi azzerati dall’aumento di capitale. L’ultima parola su questo ce l’avrà però, come sempre, la Commissione europea.

Ultima parola alla Ue. Con i precedenti Tercas e NordLB – Con l’intervento sulla Popolare pugliese, zavorrata dai crediti deteriorati e commissariata da Bankitalia per perdite, il governo tenta una strada che qualche anno fa sarebbe andata incontro a una bocciatura quasi certa da parte di Bruxelles, spiega al fattoquotidiano.it Angelo Baglioni, professore di Economia politica alla Cattolica e membro del Banking stakeholder group dell’Autorità bancaria europea. Perché il decreto approvato domenica sera, intitolato Misure urgenti per il sostegno al sistema creditizio del Mezzogiorno e per la realizzazione di una banca di investimento, “prefigura una vera e propria nazionalizzazione, non temporanea come nel caso di Mps (di cui il Tesoro ha acquisito a maggioranza nel 2017, ndr) ma mirata esplicitamente a creare attraverso il Mediocredito centrale una banca pubblica per gli investimenti nel Mezzogiorno”. Un salvataggio pubblico che le regole europee consentono solo a patto che avvenga “a condizioni di mercato“. E’ su questo punto che l’Antitrust Ue sarà chiamato a pronunciarsi nei prossimi mesi.

I precedenti per l’Italia non sono favorevoli: nel 2015 la Commissione ha bocciato un intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi (pur finanziato dalle banche) in favore di banca Tercas, di cui la stessa Popolare di Bari stava acquisendo il controllo, sentenziando che il Fitd aveva agito “per conto dello Stato”. Oggi però Roma spera in un approccio più morbido per due motivi. Per prima cosa, quella bocciatura è stata annullata dalla Corte di Giustizia Ue che ha dato torto all’Antitrust europeo. Poi nelle scorse settimane la Commissione ha dato via libera al salvataggio con fondi pubblici della banca tedesca NordLB. “In quel caso però l’istituto era già in parte pubblico avendo come socio un Land”, chiarisce Baglioni. Come dire: le norme restano immutate. Ma, anche alla luce di critiche autorevoli come quella arrivata dal Financial Times sul rischio di “due pesi e due misure”, è lecito immaginare che stavolta l’interpretazione di quelle norme possa essere meno restrittiva.

Obbligazionisti subordinati in bilico – Meno restrittiva fino ad evitare che migliaia di obbligazionisti subordinati con in tasca il bond da 213 milioni emesso nel 2014 con scadenza 2021 sopportino parte dell’onere? Questo è tutto da vedere. In caso negativo, resterebbero le opzioni (anch’esse da negoziare con Bruxelles) di rimborsi a carico dell’istituto salvato, come nel caso di Monte dei Paschi post intervento pubblico, o parziali indennizzi sulla falsariga di quelli introdotti dal governo Conte 1 sia per gli azionisti e obbligazionisti subordinati di Etruria & C. sia per quelli delle Popolari venete. Che nel 2017 furono mandate in liquidazione dal governo Gentiloni fornendo contestualmente una corposa dote pubblica (3,5 miliardi più 1,2 per la ristrutturazione) a Banca Intesa perché se ne facesse carico. E ora Bankitalia avverte che nel caso della Popolare di Bari seguire lo stesso iter – la liquidazione appunto – sarebbe costosissimo: il Fondo di tutela dei depositi dovrebbe rimborsare 4,5 miliardi ai correntisti con meno di 100mila euro sul conto. E per ipotizzare una vendita a privati occorrerebbe comunque “un consistente aiuto di Stato a fondo perduto, al fine di coprire lo sbilancio di cessione e, in funzione delle richieste del cessionario anche gli oneri di riorganizzazione e il fabbisogno di capitale”. Un assist, di fatto, per la soluzione alternativa scelta da Chigi.

Lo scontro politico sull’asse Arezzo – Bari – Sullo sfondo resta il fuoco incrociato degli attacchi politici, con il leader di Italia viva Matteo Renzi che rivendica come “su Etruria non ci mettemmo una lira di soldi pubblici, qui invece ci sono 900 milioni” e Luigi Marattin che ironizza: “A Palazzo Chigi si è passati dalla ‘merchant bank dove non si parla inglese‘ (cit) dei tempi di D’Alema all’investment bank“. Luigi Di Maio contrattacca ricordando che “Banca Etruria ha fatto perdere soldi ai risparmiatori che stiamo risarcendo noi ancora oggi, mentre le banche venete furono ripulite con soldi pubblici e vendute a 1 euro ad un’altra banca”, e rincara chiedendo che siano resi pubblici “i nomi di chi ha preso i soldi e non li ha restituiti“.
Accuse incrociate in cui i sottintesi abbondano: Massimo D’Alema era premier quando, nel 1999, il Monte dei Paschi di Siena acquisì la Banca 121 guidata da Vincenzo de Bustis, che – nonostante lo scandalo dei prodotti finanziari “My way” e “For you” venduti a migliaia di risparmiatori che persero tutto – sarebbe passato al vertice della stessa Mps per poi diventare direttore generale (2011-2015) e a dicembre 2018 consigliere delegato della Pop Bari. Oggi è indagato in due diversi filoni di inchiesta sulla gestione della banca. Intervistato dal Corriere, una settimana fa, ha detto che la colpa è della “mala gestione” che ha preso il sopravvento in sua assenza, con “un processo decisionale concentrato in un’enclave ristretta che ha tenuto il vecchio consiglio d’amministrazione e il collegio sindacale all’oscuro di quanto avveniva” e “una gestione creditizia al di fuori delle regole”, con tanto di “verbali del comitato crediti addomesticati, non veritieri, redatti ad uso e consumo di quella enclave”.


Quanto alla Etruria, superfluo ricordare il ruolo di Pierluigi Boschi, padre di Maria Elena, che della banca aretina fu consigliere e per sei mesi vicepresidente. Le inchieste che l’hanno coinvolto si sono concluse con un’archiviazione (per il falso in prospetto), una richiesta di archiviazione (per la buonuscita all’ex dg Luca Bronchi) e un proscioglimento (per la bancarotta). In compenso Boschi senior è stato multato da Bankitalia, insieme ad altri due consiglieri, per quattro violazioni: dalle carenze nella gestione e nel controllo del credito alle omesse e inesatte segnalazioni all’autorità di vigilanza.

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