Le fallacie sono argomenti apparentemente persuasivi, ma in realtà erronei. Aristotele ne propose una classificazione e il loro studio divenne un classico delle scuole di retorica. Oggi se ne occupano, in particolare, tutte le discipline connesse allo studio pragmatico della lingua.

La comprensione delle fallacie – utile per riconoscerne l’impiego e disinnescarne i cascami manipolatori – costituisce parte integrante di alcuni corsi universitari di Scienze della formazione; ma dovrebbe essere prescritta come contenuto d’esame alla facoltà di Giurisprudenza e inserita nei programmi delle scuole superiori. Il che non è; e infatti ne paghiamo lo scotto.

Quantomeno se pensiamo alla frequenza con cui questi trucchetti, efficaci quanto insidiosi, ci ingannano. Un tipico esempio di fallacia argomentativa è quello che va sotto il nome di “asserzione presupposta” ovvero di “questione complessa”.

Come funziona? Si rende implicita – in una affermazione o in un quesito, di per sé neutri – una assoluta falsità o un’allusione equivoca. Un esempio straordinario delle ricadute distorsive di tale espediente lo stiamo sperimentando “sulla nostra lingua” nel dibattito sul Mes. Lasciamo da parte, per un attimo, le questioni sull’opportunità o meno di questo meccanismo. Da feroci oppositori, o da convinti sostenitori, sospendiamo il giudizio sugli impegni finanziari, sulle regole di ingaggio, sulla possibile illegittimità costituzionale.

Concentriamoci, invece, soltanto sul suo nomen volgarizzato: “Fondo salva-Stati”. Da cultori, o anche occasionali amatori, delle tecniche sofistiche e della retorica classica, potremmo chiederci: siamo forse in presenza di una fallacia di “asserzione presupposta”? E il responso non può che essere affermativo. La locuzione Fondo salva-Stati sottende una premessa: e cioè che gli Stati abbiano bisogno di essere salvati.

Ergo, chiunque si impegni nel tumultuoso e incessante chiacchiericcio sul Mes – e quindi, ça va sans dire, sul “Fondo salva-Stati” – lo fa dando per scontato che uno Stato possa (anzi debba, alla bisogna) essere salvato. La china di tale artificio dialettico è talmente scivolosa da trarre in inganno non solo i fautori della “bontà” dell’istituto, ma anche i suoi detrattori.

Tutti, indistintamente, impegnati ad azzuffarsi sulle condizionalità dello strumento e sul fatto che esse sarebbero più o meno giuste o più o meno appropriate. Se però ci concentrassimo sulle implicazioni della password (“salva-Stati”) e ci costringessimo a esplicitarle e a problematizzarle, la prospettiva cambierebbe all’istante, per tutti. E a prescindere da come ciascuno la pensi a proposito delle caratteristiche del Mes.

La domanda più adatta per smascherare il sofisma è una sola: da quando in qua uno Stato ha bisogno di essere salvato? Pensate al tempo in cui l’Unione europea, e in particolare l’euro, non c’era. Avete memoria che uno Stato europeo corresse il rischio di fallire? O di polemiche furibonde sull’opportunità “urgente e necessaria” di istituire questa sorta di “Mutuo soccorso collettivo”? La risposta la conoscete, ed è no.

E la risposta è no perché – come noto a chiunque abbia un minimo di infarinatura sulle prerogative e sulla potestà di imperio di quella comunità civica sovrana usualmente definita “Stato” – quest’ultimo non può mai fallire perché titolare monopolistico della potestà di creare da sé la propria moneta.

Qualsiasi Stato del mondo dotato di sovranità monetaria – e cioè di capacità di generare ex nihilo una moneta domestica – non può fallire. Nota bene: dalla crisi mondiale del 2008 siamo usciti anche grazie a Stati che, lungi dal dover essere salvati, hanno semmai essi stessi “salvato” un sistema in bancarotta.

Prima dell’esordio dell’euro e della confluenza delle singole banche centrali nella Bce, il rischio di un default statale semplicemente non c’era e non era un tema sul tappeto. Allo stesso modo, se l’Unione europea avesse “davvero” una moneta unica (e non una pluralità di monete legate a un cambio fisso) e fosse dotata di una banca centrale prestatrice illimitata di ultima istanza, il problema non si porrebbe.

A questo punto, la questione dirimente è un’altra: com’è che ci siamo ridotti a discutere (e ad avere bisogno) di un Fondo salva-Stati? Perché abbiamo così ingenuamente e superficialmente rinunciato a un “sistema” in cui il fallimento di uno stato era una evenienza impossibile? Da un punto di vista tecnico-operativo – onde interiorizzare l’enormità dell’errore – potrebbe farci bene ripassare l’opinione sull’euro di ben sette premi Nobel per l’economia.

Da un punto di vista politico, dovremmo invece interrogarci sulla natura di tale “baco”: banale svista non voluta? Oppure lucido disegno con inconfessate finalità? Ai contemporanei, e non ai posteri, dovrebbe stare massimamente a cuore l’ardua sentenza.

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