Viviamo “tempi di urgenze che hanno bisogno di storie”. “Pensare, pensare dobbiamo” per “reagire alla disperazione” e, soprattutto, “sopravvivere sulla terra”. La soluzione (o una delle)? “Generate parentele, non bambini”. Le parole di Donna Haraway entrano in testa come un chiodo. Mentre anche in Italia, con grande ritardo, i discorsi su ambiente ed emergenza climatica cominciano a riempire le prime pagine dei giornali, la casa editrice Not Nero Edizioni pubblica l’ultimo libro della filosofa, femminista e zoologa dal titolo “Chthulucene: sopravvivere su un pianeta infetto”. Perché non possono bastare le piazze piene dei Fridays for future o i tentativi, più o meno efficaci, della classe politica di farsi portavoce di riforme tardive per la tutela dell’ambiente. Servono riflessioni profonde che aiutino a ripensare il modello e a farlo in modo radicale. Per questo Haraway è una voce preziosa, anche se già molto più avanti di qualsiasi dibattito italiano: accetta sì la catastrofe del presente, ma indica una strada che se non può salvare l’umanità, almeno può darle un nuovo senso. E lo fa con una lingua “immaginifica” e, come scrive Claudia Durastanti nella prefazione, forse è la prima dei nostri tempi a “non piegare il mondo al nostro linguaggio”, ma a “lacerare il nostro linguaggio per ospitare il resto del mondo”. Perché, se non può esserci solo la consapevolezza che il mondo è destinato a finire, condannato dai suoi stessi abitanti all’esaurimento, è necessario che l’uomo smetta di pensarsi come unico centro di tutto. Quindi eccola la soluzione per un pianeta che, secondo le stime, arriverà a 10 miliardi di abitanti entro la fine del secolo: creare relazioni, non solo tra gli esseri umani, ma tra le specie tutte per riuscire a sopravvivere alla fine. E se si vuole procreare che sia almeno una scelta collettiva e consapevole. Il suo è un esercizio del pensiero che richiede assoluta libertà e che abbatte le barriere: oltre genere, razza, sesso, nazione, classe e morfologia. “Dobbiamo”, scrive, “con-fare, con-divenire, con-creare

Per Donna Haraway è un approdo naturale. La filosofa è l’autrice del celebre “Manifesto cyborg”, testo che la consacra come teorica del cyborgfemminismo: dove il cyborg, inteso come uomo e macchina insieme, permette di superare quelle coppie di concetti che hanno riguardato tutta la cultura occidentale, a partire da quello uomo\donna. In “Staying with the trouble, making kin in the chthulucene”, si spinge invece a immaginare un’epoca che può prendere il posto dell’Antropocene. Partendo dal presupposto che Antropocene è l’epoca in cui viviamo e i cui cambiamenti, per definizione, sono da attribuire agli esseri umani. “Un’epoca di urgenze multi specie”, scrive Haraway, “tra cui quella umana: un’epoca di grandi estinzioni e morti di massa, di disastri incessanti le cui imprevedibili specificità vengono stupidamente scambiate per l’inconoscibilità stessa; un’epoca in cui ci si rifiuta di conoscere e coltivare la propria responso-abilità in cui ci si rifiuta di essere presenti nella e alla catastrofe che avanza, in cui si tende a distogliere lo sguardo in un modo che non ha precedenti”. Una delle caratteristiche fondamentali dell’Antropocene secondo Haraway è che “introduce delle discontinuità drastiche; quello che verrà dopo non sarà come quello che è venuto prima”. E’ una condizione difficile da accettare e comprendere, ma che offre innumerevoli possibilità. E lo “Chtuhlucene”, da sym (insieme) e khthon (mondo sotterraneo), è quello che potrebbe venire dopo se gli esseri umani riescono a scendere dal loro piedistallo e imparano a pensarsi nel mondo. E’ una dimensione “che imbriglia una miriade di temporalità e spazialità diverse e una miriade di entità in assemblaggio”. “Per vivere e morire bene da creature mortali nello Chthulucene è necessario allearsi con le altre creature al fine di ricostruire luoghi di rifugio; solo così sarà possibile ottenere un recupero e una ricomposizione parziale e solida della Terra in termini biologici-culturali-politici-tecnologici”.

Lo slogan di questa nuova epoca e il principio intorno al quale tutto ruota è “generate parentele, non bambini”. “E’ tempo che le femministe”, continua Haraway, “prendano le redini dell’immaginazione, della teoria e dell’azione per sciogliere ogni vincolo tra genealogia e parentela, e tra parentela e specie”. Il richiamo è quanto di più umano si possa immaginare: “Generare parentele – making kin – ed esercitare la premura verso l’altro – making kind – (intesi come categoria, cura, parentele senza legami di sangue, parentele altre e molte altre ripercussioni) sono processi che ampliano l’immaginazione e possono cambiare la storia”. In questo modo, si immagina Haraway, gli esseri umani potranno sperare di tornare “a essere due o tre miliardi” e solo così, riducendo il numero di abitanti sulla terra e rafforzando le relazioni tra gli esseri che sopravvivono, sarà aumentato “il benessere di un’umanità diversificata”. Per noi, ancora bloccati nell’Antropocene, e con gli occhi pieni di “estinzioni di massa” è molto difficile da pensare. Ma Haraway va oltre: chiude il suo saggio con un racconto di come si immagina lei che potrebbero vivere le nuove comunità. La filosofa e scrittrice pensa a un mondo dove la natalità è una scelta collettiva che viene presa insieme proprio perché si conoscono le conseguenze alle quali potrà condurre. E’ possibile ad esempio, decidere di non procreare completamente e di coltivare un sentimento fondamentale: “l’amicizia”. Ogni nuovo nato, i cosiddetti “bambini del compost” può avere più di due genitori e insieme possono decidere di “modificare il corpo” e unirsi in modo “biologico” ad altre specie. Ad esempio, una delle nuove creature che racconta la Haraway, Camille 1, venne unita alla farfalla Monarca, una specie destinata all’estinzione. Va troppo oltre? La radicalità di Donna Haraway è la sua forza e, in sintesi, vuole solo dare un futuro a un mondo che così com’è non ce l’ha. “Dobbiamo unire le forze e condividere tutte le idee che ci vengono in mente per coltivare le epoche a venire in modo da ristabilire dei luoghi di rifugio”. O meglio, “pensare, pensare dobbiamo”.

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