Nello spogliatoio della palestra, dove tento inutilmente di mantenermi in forma, incontro ogni tanto un poliziotto della locale Questura; una persona civile con cui scambio qualche chiacchiera amichevole. Basta non toccare il tasto Matteo Salvini, che scopro essere diventato il mito suo e dei suoi colleghi in quanto – sempre a detta del celerino – “sta dalla parte dei veri italiani”.

In questa fase storica, quando la cultura popolare assurge a vero dialetto della politica, inutile perdere tempo a decodificare l’intrinseca natura di un avventuriero voltagabbana, che indirizza la prua della propria carriera dove soffia il vento (da comunista lumbard a leghista vicino a Casapound, da spregiatore dei meridionali e separatista padano a nazionalista sovranista, da “poligamo” a integralista cattolico).

Altro specchio dei tempi: lunedì scorso ero in una libreria milanese, a presentare con l’amico Pippo Civati un mio saggetto filo-populista, e – alla domanda che rivolgevo al pubblico: “chi è attualmente il più grande comunicatore al mondo?” – mi sono sentito rispondere nientemeno che Donald Trump. Ossia un maniacale e compulsivo digitatore di tweet demenziali, incapace di sviluppare una qualsivoglia argomentazione in assenza di suggeritori spin-doctor. Tanto per la cronaca, io mi riferivo a papa Bergoglio; che, seppure in stato di avanzato appannamento, rimane la più potente voce critica della globalizzazione finanziaria.

Difatti il presidente Usa annaspa, ora che sotto la spada di Damocle dell’impeachment dovrebbe rinunciare alle bullaggini per addentrarsi nella dimensione a lui sconosciuta del ragionamento. Lo stesso dicasi per quel Matteo Salvini – presunto “comandante” – che, stando alle cronache, si aggirava in trasferta a Washington durante l’incoronazione di The Donald per elemosinare un selfie in compagnia del vero “comandante in capo”.

Sempre spettacoli penosi, a dimostrazione che probabilmente stia avvicinandosi il momento in cui la politica talk show arriverà al rigetto da parte del pubblico; per indigestione di gag e sguaiataggini. Suonerebbe a conferma l’andata fuori giri della cosiddetta “Bestia” salviniana: la macchina di fake news e porcatine/one varie, installata nel dicastero degli Interni (a spese dei contribuenti) durante la stagione giallo-verde, che ha accompagnato il ministro nella scalata alle vette dell’audience.

Sarà forse per anemia da finanziamenti pubblici, sarà forse perché anche in questo caso le bullaggini stufano, ma resta il fatto che il supporto comunicativo al reduce del Papeete ormai si rivela pressoché inesistente. E quando c’è produce effetti penosi. Lo si è toccato con mano dopo l’immensa montagna di panna montata sulla presunta svendita dell’indipendenza nazionale da parte del premier Giuseppe Conte, accordando al ministro della Giustizia Usa un appuntamento richiesto per vie diplomatiche.

Sinceramente chi scrive non era mai riuscito a capire cosa ci fosse di scandaloso nell’incontro pubblico con un esponente ufficiale di uno Stato amico e alleato. Oggi, dopo il briefing in Copasir, sappiamo che neppure un’informazione top secret è stata fornita a Mr. William Barr; né dal capo del governo né dai nostri 007. Semmai la maldestra operazione scandalistica ha consentito a Conte di rilanciare all’attacco sul ben più consistente dossier Russiagate dei magliari padani.

Attacco a cui ha fatto seguito l’assordante silenzio di Salvini per una buona oretta, seguita da una presunta replica fatta solo di insulti sconnessi contro l’odiato premier, che già ad agosto lo aveva messo alla gogna. Sicché cosa barrisce/latra la Bestia della comunicazione al servizio del ras destrorso? Solo rumori e mugolii. Finora mascherati almeno in parte dalla copertura fornita alla bufala autunnale anche da parte della stampa del gruppo Gedi (Repubblica, Stampa, Secolo XIX). E lo scrivo con il rammarico di chi a lungo ha scritto su ben due di quelle testate.

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