Anche la Tunisia ha il suo #MeToo ed è nato grazie all’audacia di una ragazza appena maggiorenne che ha osato pubblicare le foto del suo aggressore. Così, un fatto di cronaca che sarebbe altrimenti passato in sordina come tanti altri ha dato il via al fenomeno #EnaZeda, un hashtag che raggruppa migliaia di testimonianze di donne vittime di violenza. Raccontano la propria esperienza su Facebook o su Twitter, sono giovani, adulte, anziane. “Parlavo con una signora che oggi è nonna. Sua nipote le ha fatto leggere il suo #EnaZeda, e lei è rimasta sconcertata. Mi ha detto ‘non mi sono mai resa conto di che cosa le accadesse là fuori, ma avrei dovuto immaginarlo’. È successo anche a me”. Lo racconta a Ilfattoquotidiano.it Lina Ben Mhenni, autrice del blog A Tunisian Girl e punto di riferimento per tante ragazze. Censurata ai tempi dell’ex presidente Ben Ali, otto anni dopo la rivoluzione l’attivista accoglie l’hashtag con un sospiro di sollievo: “È nato il #MeToo tunisino. Finalmente”

Nell’ottobre del 2017, mentre il #MeToo e le su declinazioni #BalanceTonPorc, #YoTambién o l’italiano #Quellavoltache si moltiplicavano sui social network in seguito al caso Harvey Weinstein, in Tunisia sono comparsi i primi #EnaZeda. In quel momento, il collettivo femminista Chaml raccoglieva alcune testimonianze di vittime di violenza sessuale. Già nel 2016, denunciava l’oppressione quotidiana delle donne, attraverso la campagna No vuol dire no.

Eppure, fino alla settimana scorsa, in poche hanno osato raccontare. Anche perché molte tunisine non si sono identificate nel movimento di denuncia partito da Hollywood. “Durante il #metoo mi ricordo bene la frustrazione di non aver avuto un canale per confrontarci tra di noi. La maggior parte delle discussioni si limitavano a #Weinstein e ad #Hollywood. #EnaZeda è l’espressione della specificità delle nostre esperienze di tunisine”, si sfoga su Twitter Amal Haouet, l’iniziatrice dell’hashtag. “È stato spontaneo – racconta a Ilfattoquotidiano.it – l’ho scritto su Twitter mentre commentavo con un’amica l’ultimo episodio di molestie in strada».

Un movimento che vuole parlare il dialetto
#EnaZeda è innanzitutto una reazione all’ennesimo fatto di cronaca locale. Tutto ha inizio a Nabeul, nel nord-ovest del Paese, dove un uomo a bordo di un’automobile, con i pantaloni abbassati, ha seguito una ragazza fuori dal liceo della cittadina toccandosi i genitali. La studentessa gli ha scattato alcune fotografie per poi postarle sui social, dove gli amici hanno riconosciuto l’aggressore. Si tratta di Zouheir Makhlouf, deputato neoeletto con il partito Qalb Tounes (Cuore di Tunisi) proprio durante le ultime elezioni legislative del 6 ottobre. Attualmente sotto processo per aggressione sessuale, il parlamentare continua a negare l’accaduto.

“Questa volta è successo in un villaggio a 70 chilometri da Tunisi, non ad Hollywood”, spiega Lina Ben Mhenni. Sono molte le donne tunisine che si sono riconosciute in questa ragazza. Di racconti ce ne sono tanti, tutti diversi e simili allo stesso tempo. Per la militante femminista Amal Haouet, non è un caso se #EnaZeda non è arabo classico ma dialetto tunisino: “Il nostro dialetto è ricchissimo, spiega, ma quando si tratta di sessualità o ancor più di aggressione sessuale mancano le parole per parlarne“. Così, lontano dalla pressione sociale della vita reale, su vari gruppi Facebook privati e pubblici si moltiplicano i racconti dolorosi delle vittime di molestie, aggressioni, violenze.

La fine dell’impunità
“Internet rassicura più di una strada, più delle mura di casa, dove denunciare è tabù“, racconta a Ilfattoquotidiano.it Samia, una delle poche ragazze che accetta di parlare a viso scoperto. I social si trasformano così in uno spazio di confronto prezioso, dove le donne hanno diritto all’anonimato. “Questo in commissariato non è possibile”, precisa Haouet, che raccoglie e diffonde le testimonianze di chi preferisce non mostrare il proprio volto. E aggiunge: “In quarantotto ore abbiamo reso pubbliche più di duecento storie, circa mille in una settimana“. Il coraggio delle donne ha spinto anche alcuni uomini a rompere il silenzio. Come Malek, militare, che racconta di aver subito violenze nell’esercito.

Secondo le ultime statistiche risalenti al 2018 e pubblicate dal quotidiano locale La Presse, il 43% delle donne tunisine ha subito molestie sessuali, di cui più del 70% in luoghi pubblici, sui mezzi di trasporto o sul lavoro. Per Lina Ben Mhenni, i numeri contano poco: “Non c’è una sola donna in Tunisia che non abbia subito soprusi. Mi auguro che #EnaZeda possa essere un primo passo verso un cambio reale di mentalità”.

Ma prima ancora dell’educazione al rispetto, le tunisine chiedono l’applicazione della legge sull’eliminazione della violenza, approvata nell’estate 2017, che punisce con due anni di prigione e 1.600 euro di multa chi aggredisce una donna in uno spazio pubblico. “Mi scrivono ragazze che si recano in commissariato per sporgere denuncia e vengono rimandate a casa”, racconta la blogger. “Ma se un uomo influente come Zouheir Makhlouf fosse incriminato, sarebbe certamente un primo passo verso la fine dell’impunità“.

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