Musica

Concerti, tour, eventi speciali: gli artisti campano (quasi solo) di questo. O no? La ricetta del vero successo ce la “spiegano” Cremonini e Salmo

L’industria discografica ha ormai il suo core-business nei concerti e negli eventi live. Ma siamo sicuri che tutti vendano davvero così tanti biglietti? O spesso a farcelo credere è solo un’abile strategia di comunicazione? E se la “bolla” fosse sul punto di esplodere?

di Alberto Scotti

Il vero guadagno di un artista ormai sta nei live. Con i dischi non si vedono soldi.

Un mantra ripetuto all’infinito dagli addetti ai lavori del settore musicale e, a cascata, da chi nella musica ci lavora o di musica è semplicemente appassionato. Ma è un’affermazione vera? Sì e no. Sicuramente la Golden Age dell’industria discografica è lontana, dal 2000 in poi le vendite di CD e vinili sono crollate, e i ricavi dai click in streaming sono in sé risibili. Ciò non toglie che in alcuni casi, a monte vi siano artisti con contratti discografici dalle cifre importanti. Ma è pur vero che per la maggior parte degli artisti, i concerti costituiscono una fonte notevole di entrate, spesso la principale. Di qui, il boom di tour, eventi speciali, live che negli ultimi anni si sono moltiplicati, ovviamente anche in Italia.

Il punto è: il sistema è sostenibile? Esiste un rapporto tale tra domanda e offerta per cui tutti possono stare a galla (leggi “guadagnare la pagnotta”) con i concerti? Anche qui, sì e no. Il marketing del sistema discografico oggi vive di complessità che in passato non esistevano. E soprattutto, c’è un assillante problema di comunicazione. Avete presente la campagna elettorale permanente di alcuni politici? Ecco, nella musica avviene più o meno la stessa cosa. E non ci si può mostrare deboli. Ma siamo sicuri che non ci sia una bolla speculativa pronta ad esplodere? La scorsa estate, Ligabue – non esattamente l’ultimo arrivato, uno che ha macinato diversi stadi, i trionfi di Campovolo, i record nei palasport – ha fatto un coming out clamoroso, ammettendo che sì, effettivamente il suo tour negli stadi non stava vendendo molti biglietti. Uno choc. Soprattutto perché siamo abituati a leggere o vedere band, cantanti, dj ostentare i propri successi. Il Liga ha scoperchiato un vaso di Pandora, uno scenario ampio.

Innanzitutto, nessuno vuole mai ammettere un insuccesso. “Il disco è un flop”, “il tour va male”. Non capita mai. Strano, no? Dare di sé un’immagine vincente sembra indispensabile. E questo avvia una spirale perversa, che costringe a bruciare tappe e a fare passi più lunghi della gamba. Nelle ultime stagioni abbiamo visto artisti discograficamente giovani arrivare subito ai palasport. Tutti fenomeni? No. Però, comunicare un sold out al Forum di Assago o al PalaLottomatica è una notizia, comunicare dieci sold out in dieci locali da mille persone ciascuno, non lo è. Lo stesso discorso vale per i big che devono dare la prova di forza di un San Siro per passare al gradino successivo della scala del successo. È un benchmark, un’asticella. Una bella spinta di immagine. In parecchi casi però assistiamo a controversi tour dove i sold out sono accompagnati da settori chiusi e capienze limitate. Un bel trucco: prendi uno spazio da 10mila persone, ne riduci la capienza a 7mila, vendi tutti i biglietti e proclami un glorioso “tutto esaurito”. Tecnicamente è vero. In realtà c’è il gioco di prestigio. Ghali o Thegiornalisti sono esempi saliti agli onori della cronaca, e stiamo pur parlando di nomi il cui successo è difficile da mettere in discussione.

Poi ci sono i casi in cui serve un riposizionamento – altra parola magica molto cara a manager e agenti – e l’artista deve ridare smalto a una carriera appannata. Così nascono strani compagni di percorso: Laura Pausini e Biagio Antonacci sono l’ultimo esempio di tournée in cui si sta insieme con lo spago (un caso storico fu l’incastro decisamente forzato di Ron, Mannoia, De Gregori e Pino Daniele nel lontano 2002) con l’idea di travasare un po’ del pubblico reciproco. Idea che di solito non funziona troppo bene. La verità è che viviamo tempi non semplici. E le strategie per restare sull’onda del successo sono complesse. Necessità di visibilità costante, numeri da poter mettere nero su bianco, esigenze di immagine e l’assillo dei social sono un mix micidiale.

Eppure, la ricetta per il successo è… fare successi. Se stiamo a guardare, i casi di maggior successo degli ultimi anni – restando in Italia – sono rappresentati da artisti che hanno saputo in primis scrivere canzoni che hanno conquistato il pubblico; in secondo luogo, hanno messo nei live (l’aspetto più importante della filiera) innovazione e qualità. E poi, hanno saputo pianificare i passi giusti al momento giusto. Qualche case history: Salmo, che è uscito dai classici percorsi del rap capendo bene quando passare dai club alle arene e inventandosi una crociera estiva di tre giorni con concerti e dj set; Cesare Cremonini, il vero prosecutore di uno stile pop “alto” molto italiano, che in una carriera già lunga ha preferito attendere il momento opportuno per gli stadi, “testandoli” un paio di estati fa e anticipando il tour del 2020 con un largo anticipo pubblicitario a cui seguirà, pare, un best of prima di Natale. Due mosse perfette per vendere biglietti in un contesto così grande. C’è poi il caso Jovanotti, che nell’ultimo decennio ha fatto passi da gigante diventando di fatto l’artista italiano più importante per numeri e reputazione insieme a Vasco. E che con il Jova Beach Party ha dato una lezione di creatività, comunicazione, idee. In ultimo, un caso di assoluto rilievo è quello di Gianni Morandi, che si è gettato con intelligenza su un mezzo ignorato da tutte le strategie degli artisti over 60: i social. Creando un cortocircuito che l’ha rimesso al centro del dibattito, per i suoi coetanei come per i giovani (non a caso ha stretto un legame con il vero grande genio italiano under 30, Fabio Rovazzi, uno su cui si dovrebbero scrivere trattati).

E la bolla? La bolla scoppia, se si cerca di ingozzare il pubblico di concerti senza una vera forza artistica o creativa. Tutti vogliono giustamente cavalcare il successo, e gli apparati intorno agli artisti hanno consegne, obiettivi, fatturati da inseguire e stipendi da pagare. Ma se c’è un valore imprescindibile nell’arte, è quello di dare spazio all’arte, di far esprimere gli artisti nel modo a loro più congeniale. Che non significa permettere loro di pubblicare dischi suicidi (a volte, anche) ma di controllare in modo distaccato e sensato i tempi, i ritmi di produzione, la direzione delle cose. Oggi, all’alba del 2020, sembra impossibile, perché il mondo ci assilla ogni secondo con una novità e ci sembra di restare perennemente indietro. Ma è solo dando tempo e valore al lavoro che sbocciano i fiori migliori. E si evitano le bolle. Che poi, scoppiano.

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