Caro Franco ti scrivo, così mi distraggo un po’, soprattutto dal baccano che negli ultimi giorni, ma che dico, mesi, ma che dico, anni, si è creato intorno alla tua vita privata. Eh già, perché il tuo centro magnetico, quel famoso polo che nella tua amatissima filosofia gurdjieffiana precede il centro di gravità permanente, è così forte da attirare l’interesse e la curiosità del pubblico anche quando ti tieni, deliberatamente o meno, lontano dalle scene, dai clamori, da quella comunicazione di massa che spinge molti a credere la vita privata dei personaggi pubblici essa stessa un fatto di pubblico dominio. Ma così non è, e tu meriti, caro Franco, tutto il rispetto che è d’obbligo tributare a chi, con la propria opera, ha portato milioni di persone a porsi domande pregne di senso, di sostanza, specie in un’epoca non particolarmente votata alla ricerca del giusto, del vero, del reale.

Perciò ti scrivo, il giorno dopo in cui viene pubblicato il tuo nuovo, e son certo non ultimo, album, perché ti voglio ringraziare, e voglio farlo pubblicamente, per tutto il sistema di conoscenze che, grazie a musiche capaci di cogliere sempre nel segno, hai avuto la tenacia, la determinazione, l’ardire di trasmettere a milioni e milioni di persone, a un pubblico incredibilmente eterogeneo quanto eterogenea e trasversale è la ricerca della verità: lo hai fatto mentre gli altri erano impegnati, da una parte, a cantare l’ovvio, dall’altra, a contorcersi in demagogici intellettualismi. Grazie.

Ti voglio ringraziare perché mi hai dimostrato che col pop si possono dire e fare cose degne di assoluta attenzione, motivo per me più che valido per rifiutare, anni or sono, una tesi di laurea in musicologia sull’opera lirica di Luciano Berio e caparbiamente insistere, contro pregiudizi e ostilità di ogni sorta, per trattare il periodo più spietatamente elettronico della tua produzione, quello che dal 1971 al 1974 ti vide partorire quattro degli album più sperimentali mai prodotti nel nostro Paese, Fetus, Pollution, Sulle corde di Aries e Clic. Una tesi che poi divenne libro, quel Battiato ’70, tra popular music e avanguardie colte (Crac Edizioni, 2015) che avesti anche la pazienza di leggere e approvare. Grazie.

Ti ringrazio perché E ti vengo a cercare è una vera e propria preghiera per l’evoluzione personale, capace di comunicare tutta la bellezza dell’emancipazione dai dolori delle emozioni negative, in un cammino verso la ricerca dell’unità interiore: lo capì anche la chiesa, che infatti ti invitò, primo di sempre fra gli artisti pop, a cantarla in Vaticano. Grazie poi per avermi parlato della reincarnazione e degli innumerevoli passaggi che di vita in vita infaticabilmente si susseguono, per averlo fatto non solo con canzoni come Testamento e Vite parallele, ma anche con documentari come Attraversando il Bardo, imprescindibile studio tra culture religiose e scientifiche apparentemente distanti ma sostanzialmente e concretamente vicine.

Ti ringrazio per avermi insegnato che lo studio e la dedizione sono le più potenti armi di cui si possa dotare l’essere umano: lo hai fatto con l’esempio della tua stessa biografia, partendo dalle canzonette e finendo a scrivere opere liriche dopo anni passati a tenacemente approfondire la teoria e l’armonia musicali, i testi della mistica di ogni tempo e luogo, i più disparati repertori musicali etnici ed eurocentrici come anche i sistemi e le scuole filosofiche di matrice occidentale.

La lista è oltremodo lunga, e la tua biblioteca in questo senso è il prodotto di un interesse senza limite alcuno. Grazie ancora per aver dimostrato che anche il mondo della popular music può essere popolato da autori veri, in carne ed ossa, gente cioè che come te, Branduardi, Zappa, Oldfield e diversi altri ha preteso un controllo totale sulle proprie produzioni, una cifra di autorialità mutuata dal mondo della grande musica classica e mille miglia distante dalla stragrande maggioranza dei nomi che affollano il panorama pop di ieri e di oggi. Grazie ancora per il tuo sguardo, sempre così severo ma magnanimo al tempo stesso, attento ma mai teso, “feroce e indulgente”, come reciti tu stesso in uno dei versi di Apriti sesamo, “per non offendere inutilmente”: è proprio da qui, da questo preciso punto che dovrebbero partire i tanti nuovi volti che popolano le classifiche di questi ultimi tempi, con testi inutilmente offensivi e carichi di una violenza oltremodo gratuita.

Grazie per brani come Inneres auge, Povera Patria ed Ermeneutica, nei quali, voce isolata in un’Italia sempre più priva di grandi artisti impegnati e schierati nella difesa del giusto, hai detto ciò che andava detto senza paura e peli sulla lingua: furono solo Radio Capital e Radio Deejay a passare Inneres auge, il brano nel quale cantavi lo sdegno e l’indignazione per le “eleganti” cene berlusconiane, ma tu imperterrito andasti avanti e quel brano divenne vero e proprio momento catartico di tutti i tuoi concerti.

Quanti grazie dovrei ancora rivolgerti caro Franco, quanti grazie ti rivolgerebbero tutti i tuoi fan. Ma gli spazi giornalistici sono come quelli di una canzone, bisogna sintetizzare, e tu sai meglio di chiunque altro cosa questo voglia dire. Mi accingo perciò a chiudere questa accorata missiva con le parole di un’amica: “Vi sono uomini che sono destinati a dare più di quanto possano ricevere. Ciononostante saranno soddisfatti ugualmente, perché quella è la loro natura”. Credo, in fede, tu appartenga a questa categoria di uomini.

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