L’annuncio di Donald Trump di ritirare le proprie forze dal nord della Siria ha sorpreso i gruppi armati curdi nella regione e l’intera diplomazia mondiale. Dopo aver contribuito a sconfiggere l’Isis, i curdi vengono prima convinti a smantellare le fortificazioni al confine con la Turchia e successivamente abbandonati nelle mani del Sultano, che non ha perso tempo e ha lanciato un’offensiva devastante con l’obiettivo di creare una zona cuscinetto di 30 km di profondità su tutto il confine siriano.
I caccia turchi hanno colpito già quasi 200 obiettivi in tutto il nord, tra cui un convoglio di rinforzi curdi al confine tra Iraq e Siria. A preoccupare è soprattutto l’azione dei gruppi di miliziani islamici che affiancano l’esercito turco nell’offensiva. Si tratta del variegato universo del Fsa (Free Syrian Army) che, come è noto, è composto anche da tagliagole e torturatori di ogni risma.
Come ho avuto modo di denunciare durante il mio intervento in Senato, i curdi in questi anni hanno combattuto l’Isis quando la potenza di questa organizzazione terroristica era al culmine. Non va dimenticato che nei territori ricchi di petrolio che lo Stato islamico aveva sottratto al governo siriano fioriva un traffico di olio nero che finiva direttamente nelle raffinerie di Batman (Turchia) e alimentava l’industria del paese. I proventi di quel traffico hanno permesso all’Isis di eseguire eccidi terribili durante questi anni. A finanziare i gruppi terroristici, mascherati da ribelli moderati, non solo la Turchia, ma anche il Qatar, Arabia Saudita, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, solo per ricordarne alcuni.
Proprio per favorire un accordo che tuteli tutte le parti in conflitto, è il momento di tornare a dialogare riallacciando i rapporti diplomatici con Damasco e ponendo fine alla ridicola farsa delle sanzioni alla Siria che colpiscono la sua economia e affamano la popolazione. Proprio su questo tema, ho presentato un’interrogazione nel novembre scorso. Contemporaneamente è necessaria una mobilitazione diplomatica eccezionale che faccia pressione su Erdogan per un cessate il fuoco immediato.
Le parole del nostro ministro degli Esteri Luigi Di Maio sono state molto chiare: ferma condanna dell’aggressione di Ankara alla Siria e azione diplomatica a 360 gradi per fermare l’invasione. Già oggi si riunisce il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e molti stati, tra cui Stati Uniti e Russia, hanno avvertito la Turchia di non condividere l’iniziativa militare.
Donald Trump (anche se i suoi propositi mutano celermente) si è detto pronto a un embargo nel caso la situazione peggiori, mentre i russi, alleati del governo siriano, potrebbero spingersi oltre la semplice condanna morale, visto lo schieramento dell’esercito regolare siriano (appoggiato da Mosca) si trova al confine con l’area curda, in funzione anti turca. Erdogan gioca una partita molto rischiosa, che evidentemente ritiene fondamentale per la sicurezza della Turchia, e non esiterà a usare ogni strumento a sua disposizione, compreso quello dei profughi.
È risaputo che l’Ue ha pagato alla Turchia ben 6 miliardi di euro per interrompere i flussi di profughi siriani in Europa, ma il paese ha pagato comunque un prezzo alto nell’accoglienza di circa 3 milioni di siriani. Pian piano, anche i turchi sono diventati insofferenti verso i profughi e lo scontento sta minando il consenso dell’Akp.
Erdogan potrebbe quindi spingere centinaia di migliaia di persone verso la Grecia, creando un nuovo caos migratorio. Un ricatto che l’Europa non può accettare ed è auspicabile che possa emergere un’unica voce palesando, finalmente, un’unità d’intenti. Perché un’Europa forte è una garanzia di stabilità e pace.