“Ho il terribile sospetto di essere una donna avida, pervertita, egoista, cinica, depravata e moralmente fallita che non merita di chiamarsi femminista”. Basterebbe questo monologo del primo episodio di Fleabag, la serie che ha trionfato agli Emmy, per capire di non trovarsi di fronte a una serie tv come le altre. Phoebe Waller-Bridge, che ha ideato scritto e interpretato la serie, ha vinto sia come sceneggiatrice che come attrice, portandosi a casa anche la statuetta più ambita della serata, quella per la miglior serie comedy (l’altra, per la miglior serie drammatica, è andata a Game Of Thrones).

Acclamatissima dalla critica, Fleabag racconta la vita di una trentenne londinese cinica e irriverente, confusa e arrabbiata, che prova a stare a galla tra i relitti della sua esistenza. Condensare così la trama è riduttivo: la serie guarda la realtà attraverso gli occhi della protagonista, che rompe la quarta parete e commenta il mondo da un punto di vista tutto suo, cinico e dissacrate. Di lei sappiamo tutto: sappiamo che ha una caffetteria sull’orlo del fallimento, una sorella maniaca del controllo, un padre distante che sta per sposare un’amica di famiglia che Fleabag detesta cordialmente, ricambiata. Sappiamo che sua madre è morta e che anche la sua migliore amica è morta lasciandola sola con un porcellino d’India da accudire e una montagna di sensi di colpa. Sappiamo di tutte le sue relazioni fallite e degli uomini con cui cerca sollievo da se stessa, un briciolo di gratificazione più che di piacere. Sappiamo tutto, ma non sappiamo il suo nome: Fleabag è un’espressione per indicare una persona cattiva, scorretta un ‘sacco di pulci’.

Phoebe Waller-Bridge è una delle voci più interessanti di questa generazione: ha scritto Fleabag come uno spettacolo teatrale per il festival Fringe di Edimburgo, che poi è stato notato dalla Bbc e prodotto per la televisione, distribuito in tutto il mondo da Amazon Prime. Ne è venuta fuori una serie tv folgorante, già diventata di culto: due stagioni con sei episodi ciascuno, che nell’arco di venticinque minuti passano dal dramma alla commedia e viceversa. Nel cast, oltre a Phoebe Waller-Bridge, anche Sian Clifford, una bravissima Olivia Colman e Andrew Scott nella sua forma migliore, nei panni di un sacerdote particolarmente affascinante.

Intendiamoci: di serie che parlano di donne single alle prese con il lavoro e le relazioni amorose ne è piena la tv. Fleabag però non è un’eroina che vuole salvare il mondo. Riesce a malapena a salvare se stessa. Fleabag è un lungo e appassionante monologo sulla solitudine e sullo strazio di avere trent’anni e non sapere che farsene. E non è neanche una serie femminista – se s’intende una storia con molti buoni sentimenti e riscatto finale della protagonista. “A volte ho paura che non sarei così femminista se avessi avuto delle tette più grandi”, confessa candidamente di fronte a un sacerdote. Fleabag parla anche di sesso, menopausa, matrimoni falliti e tradimenti, ma è soprattutto capace di raccontare con brutale onestà la confusione di una vita adulta senza una direzione, il dolore e la rabbia.

Lo fa attraverso l’ironia tagliente di una protagonista brillante, arguta, incapace di adattarsi alle regole della vita adulta e di amarsi abbastanza per lasciarsi amare a sua volta. “O tutti si sentono così ogni tanto e non lo dicono, o sono disgraziatamente sola”. Che poi è quello che ogni fan della serie ha pensato dopo l’ultimo episodio.

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