Francesco Bellomo aveva cercato di “turbare l’attività” e “impedire la partecipazione alla votazione finale” di Giuseppe Conte e Concetta Plantamura sul procedimento disciplinare che poi portò alla sua destituzione. Prima con la causa civile da 250mila euro, poi con alcune lettere nelle quali venivano accusati di essere incompatibili, arrivando a chiedere la ricusazione e facendo arrivare a tutti i componenti del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa l’atto con il quale aveva fatto partire la causa. Una “calunnia” e una vera e propria “minaccia”, sia per il pubblico ministero che per il gip del Tribunale di Bari, Antonella Cafagna.

È così che il presidente del Consiglio diventa uno degli snodi dell’ordinanza di custodia cautelare che ha portato l’ex giudice, accusato di maltrattamenti ed estorsione, agli arresti domiciliari. Perché, pochi mesi prima di arrivare a Palazzo Chigi, l’attuale premier era a capo del Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa che si ritrovò a ‘processare’ sotto il profilo disciplinare Bellomo. E l’allora giudice, già sulla graticola, provò da un lato a intimidirlo con una causa civile e dall’altro a “impallinarlo” davanti agli altri membri del Cpga che dovevano decidere sulla decadenza con accuse considerare dal pubblico ministero destituite di ogni fondamento. Una non veridicità di cui, secondo gli inquirenti, Bellomo era perfettamente a conoscenza.

Bellomo tira in ballo Conte per la prima volta il 18 settembre 2017. È in quel giorno che arriva la notifica del suo atto di citazione contro Conte e Plantamura: pretende un risarcimento di 250mila euro per i danni scaturiti da “numerose violazioni di legge” commesse nell’ambito del procedimento disciplinare, in quanto presidente e componente della commissione disciplinare, avanzando l’ipotesi di “dolo” nell’esercizio “strumentale” e “illegale”, scriveva Bellomo, del potere disciplinare. L’ex giudice ci andava giù duro, prospettando “un’attività di oppressione”, “intento persecutorio”, “violazioni procedurali e sostanziali”, “dichiarazioni e comportamenti apertamente contrassegnati da pregiudizio”. Elementi che a suo avviso avrebbero trasformato il procedimento in un “abuso dello strumento disciplinare” addirittura montato ad arte per impedirgli l’insegnamento, procurandogli così un danno. Eppure era consapevole, sostiene il pm e concorda il gip, della loro innocenza.

Tre giorni più tardi, l’atto con cui aveva dato il là alla causa civile contro Conte e Plantamura è finito sulla scrivania di tutti i componenti del Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa chiedendo, sulla base delle accuse lanciate all’attuale premier e al magistrato in servizio al Tar, l’annullamento di tutti gli atti del procedimento disciplinare e il proscioglimento immediato prospettando un possibile aggravarsi della richiesta di danno, avanzata anche un mese più tardi. “L’indagato – si legge negli atti – per la sua qualità professionale, non poteva non rendersi conto della pretestuosità delle accuse formulate”. Infatti, “molte violazioni addebitate alla condotta dolosa di Conte e della Plantamura erano state già rigettate al momento della notifica dell’atto di citazione”. Non solo. “Il risultato perseguito è stato oltretutto effettivamente conseguito essendosi, tanto il prof. Cont quanto il cons. Plantamura, determinati a non prendere parte alla trattazione dell’affare ‘per motivi di opportunità’: e ciò diversamente da quanto avrebbero fatto in assenza della citazione”.

Per le accuse di minacce e calunnia ai danni dell’attuale premier e dell’allora vicepresidente del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, i pm avevano chiesto la custodia cautelare, rigettata dal gip di Bari, Antonella Cafagna.

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