Il mio contatto fisico con un caso di delocalizzazione inizia nel 1998, con un simpatico pranzo di lavoro. Ebbi un incontro con Mario Moretti Polegato, imprenditore veneto (di quelli veri) che aveva lanciato l’avventura della Geox con enorme successo. Calzature dentro le quali non passava l’acqua. Fu quella la prima volta per me in cui venni a contatto col problema della ‘delocalizzazione’. Polegato aveva da qualche anno aperto uno stabilimento in Romania. Se non ricordo male, non aveva proprio ‘chiuso’ l’attività produttiva in Italia, ma certamente il suo obiettivo era l’espansione dell’attività là dove il ‘profitto’ appariva più importante e, soprattutto, più stabile nel tempo.

Mario Moretti Polegato era (ed è) una persona di notevole fascino. Capisci in individui come questi che nel loro cranio alberga una ‘idea’, di quelle che noi uomini orientati al marketing strategico, chiamiamo ’idee-forza’. Non ce ne sono proprio tantissimi. Il pranzo fu, come dianzi accennato, piacevole e allegro e la conversazione interessante, sia per me che per Polegato. Attorno a quel tavolo proprio non si sentiva ‘aria di problemi’, quella ‘delocalizzazione’ era vista come una sorta di espansione dell’economia italiana nel mondo, del tutto assente ogni considerazione per quelle maestranze italiane che perdevano il posto di lavoro. Anche per quanto riguardava la mia partecipazione alla discussione.

Certo, erano altri tempi, non facilissimi ma neppure tanto angosciosi. E in ogni caso si teneva in considerazione un aspetto comunque sempre ‘positivo’ per il nostro Paese: le considerazioni riguardavano il rapporto fra l’azienda e il mercato, vero e proprio ‘asset immateriale’, di difficilissima valutazione, ma spesso e volentieri (specie in questa ‘nuova’ epoca dell’economia) più importante e di valore che non parecchi asset materiali tradizionali. Visto con gli occhi dell’oggi, quel pranzo mi appare come una manifestazione di ‘cinismo industriale’ incredibile, ma allora non era così. E gli uomini (notevoli) alla Polegato passavano per industriali illuminati e propulsivi anche per l’economia nazionale.

Ero e resto favorevole alla pratica della ‘delocalizzazione’, perché questa pratica potrebbe rivelarsi come un potenziale trampolino per riportare in Italia – ove se ne realizzassero le condizioni sociali – quell’attività produttiva. La condizione fondamentale è quella per la quale si siano conservati gli ‘sbocchi di mercato’ che sarebbero pronti per il rientro in Italia. Altrimenti, “ciao ciao”. Poi, da allora sono passati gli anni, ormai le delocalizzazioni non si contano più, è quasi uno sport nazionale. Solo che… Io porto con me una riflessione che ho già cercato di esporre nel corso dei miei ‘post’ sul fattoquotidiano.it, ed è la seguente. Quando un imprenditore sposta all’estero la produzione dei suoi prodotti che prima effettuava in Italia accade un fatto ben preciso: conferisce alle nuove maestranze (ad esempio rumeni) tutta la ‘conoscenza’ (in inglese il know-how) che nel corso degli anni la sua azienda aveva formato e accumulato al fine di produrre in modo competitivo ottimi prodotti. Questa ‘conoscenza’ è composta da varie parti, alcune hanno origine nell’idea del ‘prodotto’; altre si formano negli anni attraverso il concorso delle maestranze e riguardano processi produttivi, particolarità specifiche produttive, dispositivi organizzativi, conquiste di maggiori livelli di qualità. Tutto quanto contribuisce a rendere competitivo il prodotto sul mercato.

Nel ‘bilancio’ (stato patrimoniale) esiste una voce specifica che a questa ‘arte produttiva’ si rapporta: ‘prodotti immateriali’. E nel conto profitti e perdite esiste la posta di ‘costo’ relativa a questi investimenti tecnici. Ora questo know-how è una sostanziale comproprietà fra il corpo sociale e le maestranze, quando viene conferito – in modo assolutamente gratuito – alle nuove maestranze del Paese delocalizzato che mai hanno partecipato alla sua formazione, il proprietario delocalizzante compie, a mio parere un furto bello e buono. Non solo, i parziali proprietari di tale bene immateriale rimangono senza lavoro, su una strada.

Vi sembra una situazione in cui si sia in qualche modo cercato di rispettare il principio di equità? Qualcosa, evidentemente ‘non gira’. Viene sistematicamente violato in silenzio e senza conseguenze un principio di giustizia. Perché il silenzio pesante della politica? Perché il silenzio assordante del sindacato? Qualche ‘addetto ai lavori’ vuole rispondere?

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