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Gaming disorder, l’allarme dipendenza da videogiochi: “Bambini o ragazzi che arrivano a gesti di violenza”. Ecco alcuni casi estremi

"L'avvento della tecnologia ha favorito il diffondersi di nuove forme di dipendenza da internet e di comportamenti compulsivi online che spesso sono determinati da un bisogno di fuga dalla realtà. Certi ragazzi possono arrivare a non distinguere più la realtà da ciò che non lo è", spiega a FqMagazine la psicologa Marta Di Meo. Dopo che l'Oms ha lanciato l'allarme, l'attenzione verso l'uso di videogame aumenta

di Maurizio Di Fazio

Si sa che tutti i nati dopo il 1980, i millenials, sono nati e spesso continuano a vivere, pensare, agire, giocando o come se stessero giocando a un videogame. C’è l’annosa disputa: i giochi elettronici violenti stimolano alla violenza? E anche quelli normali non favoriscono l’alienazione, madre di ogni devianza e follia? La dipendenza videoludica può giocare brutti scherzi. Ne è convinta l’Oms, l’organizzazione mondiale della sanità, che ha deciso martedì di inserire in via ufficiale il gaming disorder tra le nuove forme di dipendenza del mondo contemporaneo. Una malattia vera e propria, adesso inclusa nell’International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems. Per “gaming disorder” vanno intesi tutti quei comportamenti persistenti o ricorrenti legati al gioco, sia online che offline, caratterizzati da “un mancato controllo sul gioco, una sempre maggiore priorità data al gioco” su tutto il resto e “una continua escalation del gaming nonostante le conseguenze negative personali, familiari, sociali, educazionali, occupazionali”.

“L’avvento della tecnologia ha favorito il diffondersi di nuove forme di dipendenza da internet e di comportamenti compulsivi online che spesso sono determinati da un bisogno di fuga dalla realtà. Certi ragazzi possono arrivare a non distinguere più la realtà da ciò che non lo è – spiega a FqMagazine la psicologa Marta Di Meo, tra le più grandi esperte di mutismo selettivo nei bambini -. Gli adolescenti nutrono questo bisogno di appartenenza molto forte: se si percepiscono diversi, o non integrati, hanno un livello di frustrazione molto elevata. Questo è il punto: la scarsa tolleranza alle frustrazioni è la ‘patologia’ principale del nostro nuovo secolo. Vogliamo tutto e subito, e se qualcosa non va esattamente come preventivato, la frustrazione ci porta alla rabbia e all’aggressività, anche auto-riferita”.

Le fa eco Chiara Ballone, anche lei psicologa: “La dipendenza da videogiochi è un fenomeno sempre più diffuso e assume un carattere di gravità soprattutto per la fascia di età che colpisce. Sempre di più assistiamo, infatti, a bambini e ragazzi vittime di questa patologia che arrivano a gesti estremi di violenza e autolesionismo, fino al suicidio: è necessario pertanto fare prevenzione e informazione al riguardo, non sottovalutando i rischi di questo fenomeno, così come non demonizzandolo”. Di altro avviso Fabio Viola, tra le massime autorità italiane in materia di videogames, nella top 10 mondiale dei gamification designers. “Accolgo con favore l’inclusione del gaming disorder nella lista delle malattie dell’Oms: sarà un pungolo a darci codici di auto-condotta nel design di alcune esperienze di gioco, e a migliorare il livello di alfabetizzazione alla cultura videoludica sin dai primi anni di scuola – dice Viola a FqMagazine – Al contempo, è bene sottolineare l’esiguità degli studi che comprovano un nesso diretto tra alcuni videogiochi e comportamenti devianti nei giocatori, mentre sono numerosi i paper scientifici che affermano la loro validità anche nella cura di disabilità fisiche e mentali”.

Certo è che vari fatti di cronaca recente accreditano certi timori. Storie di gaming degenerate in apocalissi quotidiane. In Russia, per esempio, un quindicenne si è tolto la vita dopo aver perso una partita a un videogame. E l’ha fatto nella maniera più truculenta possibile, degna di un film horror-splatter: si è infuriato per la sconfitta e ha scelto allora tagliarsi la testa con una motosega. Nell’agosto dello scorso anno un 24enne di Baltimora ha cominciato a sparare all’impazzata uccidendo tre persone, oltre che se stesso. Aveva appena preso parte a un torneo di videogiochi in un centro commerciale. Ed era stato eliminato. Nel gennaio del 2018 un 28enne californiano ha ammazzato a sangue freddo la madre. Stava giocando al suo videogioco prediletto. Sempre negli States, nel Mississipi, un bambino di nove anni ha freddato alla nuca con una calibro 25 la sorellina di 14 anni. Lo sceriffo ha spiegato così: “la piccola non accettava di lasciare il controller al fratello”. In India esiste un game, Pubg, talmente popolare tra i  teenager da suscitare una sindrome di dipendenza. Un sedicenne che ormai viveva per questo gioco  si è tolto la vita dopo essere stato rimproverato dalla mamma. In alcune zone del paese è stato vietato per legge. Parliamo di una “battle royale” dove possono sfidarsi l’un contro l’altro armati, online, fino a cento gamers contemporaneamente. La modalità di gioco di Pubg è detta di “sopravvivenza”. Il giocatore è chiamato a sopravvivere il più a lungo possibile, nonostante l’aumento costante delle difficoltà. Ma se si esce, si resta in vita, quella vera, che non è un enorme e crudele videogame in 4k. E non prevede la possibilità di riavvio.

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