Qualche giorno fa ero nel carcere femminile di Rebibbia e mi sono trovata a parlare con alcune donne detenute. Una di loro commentava la paura che già immaginava di avere quando, tra pochi mesi, avrà finito la sua pena e la rilasceranno per le vie trafficate di Roma. Paura del rumore delle macchine, paura ad attraversare la strada. Metteva da parte i soldi per un taxi che la accompagnasse alla casa famiglia pur di non prendere l’autobus. Non doveva essere una grande criminale, pensavo io. Un’altra, non più giovanissima, mi raccontava di aver fatto varie brevi carcerazioni a causa di piccoli furtarelli che compiva per sopravvivere. Affermava con orgoglio di non voler andare a vivere in una struttura, di essere una persona indipendente. Ma i servizi sociali non volevano rimandarla ad abitare nel garage senza acqua corrente dove alloggiava prima. Lei però – sottolineava – li sapeva maneggiare i soldi, una volta aveva avuto 900 euro. Lavorava. Sperava di lavorare ancora. C’era stato un problema. Mi ha mostrato di sfuggita la mano senza un dito che teneva nascosta nella manica. Più tardi ho citato a un’operatrice l’incidente sul lavoro. No, non si era trattato di questo. Il dito glielo aveva staccato il compagno di un tempo.

Quando si entra in un carcere femminile, ancor più di quando si entra in uno maschile, ci si trova di fronte a storie che sembrano arrivare da un’altra epoca e da un altro Paese. Una piccola e piccolissima delinquenza, pene brevi e spesso ripetute, fragilità, abusi, povertà, marginalità sociale, legami famigliari allentati o distrutti dallo stigma che la carcerazione porta con sé per una donna ancor più che per un uomo. A tutto questo si aggiunge spesso il baratro, il dolore atroce, il senso di colpa per la lontananza dai figli. “Non sono una brava donna”, rideva un’altra signora incrociata a Rebibbia, “altrimenti non stavo qua. Ma quando sono uscita dal carcere l’altra volta non avevo nulla, non c’era nulla che potessi fare e nessuno che mi aiutasse. Per vivere sono tornata a spacciare. Ma adesso è diverso, ora ho in mano un lavoro concreto”. Si riferiva al fatto che in carcere ha lavorato all’orto, ha imparato a curare le piante, è certa che verrà presa in un’azienda agricola. Non so se ciò accadrà. Mi auguro di cuore di sì. Ma so che l’istituzione potrebbe riuscire a dare una prospettiva a moltissime di queste donne, a evitare che tornino a delinquere alla fine della pena.

Non si tratta di pericolose criminali, ma di persone che provengono da una marcata situazione di esclusione che il carcere rischia troppo spesso di approfondire ulteriormente. Le carceri e le sezioni femminili devono riempirsi di attività volte alla futura reintegrazione sociale. Attività autenticamente formative che non si limitino al taglio e cucito, attività raccordate con il mercato del lavoro esterno, con la formazione, con l’istruzione.

Un’occasione è stata persa dalla recente riforma governativa dell’ordinamento penitenziario, che vedeva tra i punti della delega parlamentare quello – disatteso – di introdurre norme specifiche per venire incontro ai bisogni delle donne detenute. Molto si sarebbe potuto fare. Qualcosa – una banalità – la si potrebbe fare anche a situazione normativa invariata: le carceri interamente femminili in Italia sono solo quattro. La maggioranza delle donne detenute è reclusa in sezioni femminili ospitate all’interno di carceri maschili. Spesso piccole sezioni cui la direzione dedica poca attenzione, concentrando le risorse umane ed economiche sulla parte maschile dell’istituto, ben più numerosa. I corsi scolastici, lo sport, le attività ricreative, la formazione professionale: tutto viene organizzato per le sezioni maschili. Ma basterebbe consentire a donne e uomini di seguire insieme un corso scolastico o di lavorare insieme per risolvere questo problema. La pratica della separazione diurna è veramente anacronistica e insensata.

Detto tutto ciò, una domanda rimane al fondo di ogni riflessione sulla detenzione femminile: ma perché le donne delinquono tanto meno degli uomini? In Italia le donne detenute sono poco più del 4% della popolazione carceraria totale. E ciò accade più o meno in tutto il mondo. Tante le spiegazioni tentate. Perfino quella secondo la quale noi donne saremmo così inferiori da non essere capaci neanche di commettere un reato. Ma sia questa che quelle senz’altro maggiormente sensate non riescono a essere davvero soddisfacenti. Credo che se ci interrogassimo profondamente sulla questione potremmo capire molte cose della nostra convivenza sociale.

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