Le manifestazioni degli studenti contro la nuova maturità, finora morbide e un po’ trascurate dai media, esprimono il disagio profondo della scuola italiana. La contestazione non riguarda non solo i tempi della riforma – una presa in giro del lavoro degli studenti – ma anche le scelte didattiche, che travisano il ruolo della scuola nella società. “Le nuove prove mettono in risalto una questione preoccupante: il Ministero sembra non conoscere cosa si fa davvero a scuola e pretende cambiando l’esame anche che, automaticamente, cambi la didattica” hanno scritto i rappresentanti degli studenti bresciani.

Quella degli studenti è una voce importante per combattere l’indifferenza perché, come rimarcava Leonardo da Vinci, nulla rafforza l’autorità più ottusa quanto il silenzio. Un pensiero ribadito da Albert Einstein: “Se rimani silenzioso, sei colpevole di complicità”. E i baby boomers possono anche rovistare nella scatola dei ricordi, perché accadde qualcosa di simile nel 1969, quando il decreto legge del 15 febbraio (poi Legge, n.119 del 5 aprile 1969) modificò l’allora Esame di Stato a meno di quattro mesi dall’evento. La riforma era un tentativo istituzionale di rispondere e regolamentare le spinte dal basso, spiaggiando sulla battigia storicamente più turbolenta della scuola italiana, quel 1969 che avrebbe esaltato i contenuti sovversivi della ribellione universale del ’68 e dintorni.

Allora, gli esaminandi accolsero bene la novità: dovevano presentare il programma dell’ultimo anno e basta – e non quello di tutto il ciclo come accadeva dalla riforma Gentile (1923) in poi. E affrontare solo due prove scritte: una era l’Italiano, l’altra scelta dal Ministero. L’orale era centrato su due discipline, a scelta tra una rosa ministeriale di quattro. Una la sceglieva la commissione, l’altra il candidato. Solo pochi secchioni borbottarono un vago mugugno, giacché perdevano l’occasione di sciorinare a memoria l’Inferno di Dante studiato due anni prima.

Pochi contestarono l’attitudine governativa di spostare il traguardo durante la corsa, praticata spesso in seguito. Nessuno accusò di stupro generazionale il nuovo meccanismo, che 50 anni fa il Ministero battezzò come “sperimentale” e tale rimase per mezzo secolo, con periodiche, più o meno marginali revisioni (1994, 1997, 2001, 2007, 2010, 2012, 2017). Anzi, alcuni benpensanti giudicarono il provvedimento come un tentativo di lisciare il pelo degli studenti in piena contestazione giovanile. Il primo dei quattro temi d’esame li confermò in quella convinzione, poiché avrebbe dato ampio spazio ai giovani per declinare le ragioni della protesta, mentre il secondo tema, quello letterario, traguardava la nascente cultura hippy: Ti è mai capitato, leggendo scrittori del passato, di dimenticare la distanza dei tempi e risentire la loro come voce del nostro tempo?

La nuova maturità del 2019 pone giustamente l’accento sulla natura interdisciplinare del sapere. Il riduzionismo della conoscenza, la frammentazione delle discipline, l’impermeabilità dei metodi, hanno trionfato nel secolo scorso, accompagnati da grandi risultati e importanti progressi. Ma sono arrivate al capolinea. Ora c’è bisogno di connettere anziché separare, d’integrare invece di ridurre, di riscoprire il valore dell’approccio qualitativo a fianco di quello quantitativo. Solo così il progresso della conoscenza, oggi un po’ arenato, potrà riprendere vigore. In questa direzione, la visione della nuova maturità non è sbagliata.

I giovani hanno parecchi motivi per contestare la novità, però. Le ragioni culturali, pur valide, sono condite da trovate meschine, come il sistema delle buste, forse ispirato a un gioco televisivo a premi. E la novità appare del tutto immatura, un carro davanti ai buoi: come spesso accade, s’inizia a costruire dal tetto anziché dalle fondamenta. Durante la loro esperienza scolastica, quando mai i maturandi di oggi hanno sperimentato percorsi interdisciplinari o multidisciplinari? Quando mai hanno sperimentato l’integrazione del sapere quantitativo con quello qualitativo? E gli insegnanti meno pagati d’Europa – e più rigidamente inquadrati in ristretti confini disciplinari e concorsuali – come possono aiutare i giovani senza un momento di riflessione collettiva? Senza un lavoro di formazione individuale e collegiale?

Tutti i rapporti dell’Oecd pubblicati negli ultimi anni dipingono un quadro assai fosco del nostro Paese, così come indica anche il Rapporto sulla Conoscenza 2018 dell’Istat. Glissando sul disastro dei test comparati di valutazione dei teenager, anche in quanto a laureati siamo penultimi, prima del solo Messico tra i Paesi avanzati. Nella fascia d’età tra 24 e 35 anni, i laureati sono il 70% in Corea del Sud e il 60% in Canada; meno del 25% in Italia. Il nostro sistema educativo meriterebbe una riflessione complessiva, finanziamenti adeguati, formazione permanente, interventi urgenti che traguardino percorsi, a medio e lungo periodo, chiari e condivisi. Si fa poca strada nascondendo la testa dentro la sabbia delle riforme parziali ed episodiche.

Nel luglio 1969, dopo il tema di Italiano, tutti noi confidavamo in una seconda prova morbida. Invece, il tema di matematica fece un’ecatombe. Chi non ricorda come un incubo quel grafico vigliacco con due minimi simmetrici, che qualche bellospirito paragonò a una zona poco nobile del corpo umano? Fummo sì promossi tutti o quasi tutti, ma anche un po’ umiliati. Dopo quell’esperienza, condividevo il pensiero di Venditti durante la sua notte prima degli esami: “La matematica non sarà mai il mio mestiere”. Invece, è accaduto l’esatto contrario.

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