Renzi, Gentiloni, Conte. Solo per ricordare i presidenti del Consiglio. Ma anche Di Maio, Fico, Salvini e Moavero Milanesi. La lista dei rappresentati delle istituzioni italiane cui Abdel Fattah Al Sisi ha promesso di fare luce sull’assassinio di Giulio Regeni è lunga. Altrettanto lunga è, per converso, la lista dei politici italiani che hanno dichiarato di credere alle buone intenzioni del presidente egiziano, contribuendo a puntellare il muro fatto di ipocrisia e realpolitik eretto sulla morte del ricercatore friulano. L’ultimo in ordine di tempo è il premier del governo M5s-Lega: “Al Sisi ha testimoniato la sua costante attenzione e il suo impegno perché questo caso abbia una soluzione”, ha detto Conte dopo il bilaterale tenuto al termine della seconda sessione del vertice Ue-Lega Araba con il capo del regime del Cairo. Che però la verità ha fatto tutto per tenerla nascosta. Riuscendoci, finora, alla perfezione.

E’ il 4 febbraio, il cadavere di Giulio è stato ritrovato da poche ore e Al Sisi, riferiva l’agenzia Mena, telefona al premier Matteo Renzi, riferendogli di aver ordinato al ministero dell’Interno e alla Procura generale di “perseguire ogni sforzo per togliere ogni ambiguità” e “svelare tutte le circostanze” della morte, poiché quello del ricercatore di Fiumicello è un caso al quale “le autorità egiziane attribuiscono un’estrema importanza“. L’Italia “troverà una cooperazione costruttiva da parte delle autorità egiziane”, aggiungeva il presidente egiziano esprimendo le proprie condoglianze.

Il 16 marzo Sisi si rivolgeva alla famiglia: “Vi prometto che faremo luce e arriveremo alla verità, che lavoreremo con le autorità italiane per dare giustizia e punire i criminali che hanno ucciso vostro figlio“, prometteva il presidente egiziano in un’ampia intervista all’allora direttore de La Repubblica Mario Calabresi volato con un suo vice appositamente al Cairo. “I nostri sforzi continueranno notte e giorno finché non avremo trovato la verità e finché non avremo arrestato i colpevoli”, proseguiva Sisi. Invece al Cairo gli investigatori inviati da Roma trovarono nei mesi successivi tutte le porte chiuse e i colleghi locali offrirono su un piatto d’argento piste inverosimili come quella della banda di rapinatori sterminata attorno al 20 marzo, tanto che l’8 aprile il ministero degli Esteri richiamava l’ambasciatore Maurizio Massari.

L’estate successiva, il 17 luglio 2017, era stato Nicola Latorre a volare al Cairo. E anche al senatore del Partito Democratico e presidente della commissione Difesa Al Sisi segnalava il “pieno impegno” dell’Egitto a scoprire i responsabili dell’uccisione di Regeni e, rendeva noto il portavoce Alaa Youssef, affermava “l’importanza di proseguire la cooperazione” fra gli inquirenti sul caso.

Giusto un mese dopo, il 14 agosto, con gli italiani al mare, il ministro degli Esteri Angelino Alfano annunciava il ritorno al Cairo dell’ambasciatore e la restaurazione della corrispondenza di amorosi sensi tra le due capitali. Tanto che il 21 settembre incontrando a New York Paolo Gentiloni, nel frattempo salito a Palazzo Chigi al posto di Matteo Renzi, a margine dell’Assemblea generale dell’Onu, il presidente egiziano confermava “la determinazione totale dell’Egitto a portare alla luce la verità su questo caso e ad assicurare i colpevoli alla giustizia”.

Pochi mesi più tardi le conseguenze del gesto di distensione si palesavano in tutta la loro evidenza: “Non smetteremo mai di cercare i criminali che hanno fatto questo” per consegnarli “all’autorità giudiziaria”, assicurava Al Sisi alla cerimonia di avvio della produzione del maxi giacimento di gas egiziano “Zohr” a Port Said, la cui scoperta, avvenuta in acque territoriali egiziane, era stata annunciata dall’Eni il 30 agosto 2015. Giusto quattro mesi prima della sparizione di Giulio. Un “giacimento supergiant che presenta un potenziale di risorse fino a 850 miliardi di metri cubi di gas”, recitava pomposo il comunicato dell’Ente nazionale idrocarburi.

Il resto è storia recente. Il 18 luglio 2018, in uno dei primi viaggi all’estero da vicepremier, Matteo Salvini volava in Egitto e Al Sisi, appena rieletto, gli ribadiva “la volontà e il grande desiderio di arrivare a risultati definitivi delle indagini sull’uccisione dello studente italiano Giulio Regeni e di scoprire i criminali per fare giustizia su questa vicenda”. Mi fido di Al Sisi, ha garantito verità a breve”, commentava il giorno dopo il ministro dell’Interno. Il 5 agosto, invece, è stato il turno di Enzo Moavero Milanesi: “L’Egitto tiene a svelare le circostanze dell’omicidio dello studente Regeni e a proseguire la totale cooperazione, condotta in totale trasparenza, con le autorità competenti”, ribadiva un comunicato della presidenza egiziana dando conto dell’incontro avuto al Cairo da Sisi con il ministro italiano degli Affari esteri.

Il 29 agosto Luigi Di Maio si faceva addirittura portavoce del capo del regime egiziano: “Il presidente Al Sisi ha detto ‘Giulio Regeni é uno di noi“, riferiva il vicepremier parlando dell’incontro avuto quel giorno al Cairo. La “determinazione” dell’Egitto a scoprire la verità veniva ribadita da Sisi durante l’incontro del 17 settembre con il presidente della Camera Roberto Fico. E nove giorni, il 26 settembre, dopo era Conte a riportare le rassicurazioni del presidente: “Ho avuto l’assicurazione, da parte di Al Sisi, che farà di tutto e lavorerà lui stesso incessantemente per questo risultato”.

Tre anni di promesse, sorrisi e strette di mano in favore di telecamere con una sola eccezione. Il 29 novembre il presidente della Camera Roberto Fico annunciava la sospensione di “ogni tipo di relazione con il Parlamento egiziano”. E il 29 gennaio rompeva il muro di ipocrisia: “Al Sisi mi ha mentito – diceva Fico in un’intervista a La Repubblica – Noi sappiamo che le responsabilità della morte di Giulio risiedono all’interno degli apparati dell’Egitto. Lo dissi ad Al Sisi nel settembre dello scorso anno. (…) Mi congedò con una promessa: ‘Rimuoverò ogni ostacolo’. Siamo al gennaio 2019, non è accaduto nulla. Quindi quelle di Al Sisi sono state parole false”, osservava Fico. Che a Salvini ricordava: “Le due magistrature sono in stallo e la cooperazione non c’è più. Dunque non c’è proprio nulla di cui fidarsi”.

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