Secondo una vulgata molto rozza e facilmente confutabile, nel XVI secolo la culla del sapere era l’Italia. Nel Seicento il Regno Unito e i Paesi Bassi. Nel Settecento la Francia. Nell’Ottocento la Germania. Nel Novecento gli Stati Uniti. Nel nostro secolo nessuno dubita che la bussola si sposterà in Oriente, ma non è ancora chiaro se in Cina o in India. Sarà davvero così? Il rapporto tra scienza e potere gioca un ruolo importante e potrebbe rendere questa previsione meno consistente di quanto appaia.

Come scrisse Giancarlo De Carlo nel 1968, l’autoritarismo ebbe un peso non indifferente nell’emigrazione del sapere: “Con la Compagnia di Gesù alla fine del Cinquecento si impone, nelle università dell’area della Controriforma, il principio dell’autorità, e col principio di autorità il germe corrosivo della libera tensione che aveva caratterizzato le comunità degli studi del medioevo. La cultura viene messa al servizio di una ragione superiore incontestabile che impone l’erezione di un apparato disciplinare e gerarchico. L’idea di una ricerca indipendente e articolata secondo le esigenze di una sua propria razionalità, diviene sospetta nel contesto di un integralismo ideologico che pretende ortodossia e conformismo”. Una tentazione che sta emergendo in molti Paesi, al di qua e al di là dell’Atlantico. E da noi con vena del tutto paesana e spirito da caserma.

Alla radice della migrazione dalla Francia alla Germania ci sono le affermazioni Napoleone, da confrontare con quelle di Von Humboldt, entrambe del 1810. Davanti al Consiglio di Stato, l’imperatore stabiliva che “il Corpo universitario avrà il compito di dare per primo l’allarme e di essere pronto a resistere contro le pericolose teorie degli spiriti singolari che cercano di agitare l’opinione pubblica”. Tutto il contrario di quanto sostenne Wilhelm Von Humboldt, inaugurando l’università di Berlino: “Nell’organizzazione degli istituti di alta cultura tutto verte sul principio di considerare la scienza come qualcosa permanentemente irrisolto, come un campo di conoscenza che non è ancora scoperto e che mai potrà esserlo, anche se è necessario indagare come se si potesse interamente scoprirlo. Quelli che vengono chiamati istituti scientifici superiori altro non sono che, affrancata da ogni forma statale, la vita spirituale degli uomini, i quali sono spinti da una disponibilità esteriore o da una tensione interiore verso la scienza e la ricerca“.

Tra le ragioni del primato statunitense del Novecento non possiamo trascurare la libertà accademica, i cui principi furono stabiliti dalla solenne dichiarazione del 1915. Come racconto nel saggio Morte e resurrezione delle università la libertà accademica è un valore che neppure il presidente più brusco del XX secolo, Richard Nixon, mise mai in discussione, giacché riconobbe che “la libertà accademica dovrebbe proteggere il diritto di un professore o di uno studente a sostenere il marxismo, il socialismo, il comunismo o qualsiasi altro punto di vista minoritario, ancorché spiacevole alla maggioranza”. E lo fece nonostante fosse il bersaglio preferito delle rivolte studentesche. 

Secondo Noam Chomsky, non c’è “alcun modo per misurare i costi umani e sociali della conversione di scuole e università in strutture che producono materie prime per il mercato del lavoro, abbandonando l’ideale tradizionale delle università: promuovere il pensiero e la ricerca creativa e indipendente, sfidare le credenze consolidate, esplorare nuovi orizzonti e dimenticare gli esterni vincoli”. Secondo molti studiosi, una delle cause della nuova migrazione a Oriente è proprio il declinante valore della libertà accademica nel mondo Occidentale, che deriva dalla servitù delle istituzioni scientifiche e culturali nei confronti del mercato. Ma in Oriente la libertà accademica è davvero un valore condiviso dalla comunità e tutelato dal potere politico?

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