di Flavia Melillo, operatrice Intersos

A Beirut facevano 27 gradi. Meraviglioso lasciare una Roma piovosa e già piuttosto fredda e trovare quel sole.

Non ero mai stata a Beirut, mai in Libano. In questi sei anni sono stata tante volte sul campo, dal Sud Sudan a Crotone, per documentare l’impatto del nostro intervento, ma non in Medio Oriente.

All’arrivo in città il colore dominante è un giallo ocra, polveroso. Un mix di terra e smog che ovatta il caos delle strade. Una città caotica, brulicante di gente indaffarata, dove, in una fusione apparentemente naturale e stridente insieme, altissimi palazzi moderni si alternano a carcasse di edifici pieni di buchi di bombe e proiettili della guerra civile. Sono ancora lì, come se niente fosse, a ricordarti che la guerra è finita ma non si può dimenticare.

Una città piena di vita, dove convivono pacificamente diciotto religioni diverse tutte riconosciute, dove da subito colpisce la presenza quasi sovrapposta di moschee, chiese copte, ortodosse, cattoliche. Tra i libanesi, i siriani sono tantissimi, quasi la metà della popolazione dell’intero Paese.

Negli ultimi anni Intersos ha concentrato le sue attività in risposta ai bisogni primari dei rifugiati siriani e a quelli della popolazione ospitante. I siriani fuggiti dalla guerra si sono insediati in tutto il Libano e, come sempre accade, chi era benestante ha avuto la possibilità di integrarsi più facilmente. Quelli scappati e sopravvissuti alla guerra ma con poche risorse economiche, vivono di stenti anche in Libano.

Su queste persone si concentra l’intervento di Intersos, con progetti che mettono al centro la protezione della persona, protezione su tutti i livelli, dalla riabilitazione delle strutture abitative, al supporto psicologico, al supporto legale per la registrazione di documenti importanti come atti di nascita e matrimoni – e quindi l’ottenimento di diritti di base attraverso il riconoscimento legale di singoli individui.

Ho visitato due regioni, quella del Mount Lebanon, intorno alla capitale, contesto urbanizzato e popoloso, e la Bekaa, che prende il nome dalla grande valle (Bekaa Valley) a ridosso della catena montuosa che di fatto segna il confine con la Siria. Un fascino opposto al caos cittadino, dove l’occhio riesce ad arrivare lontano e a riconoscere una natura aspra, quasi intatta.

Il primo giorno sono stata a Sibline, a pochi chilometri dalla capitale Beirut. Lì, ho visitato uno di quelli che vengono chiamati collective site, insediamenti urbani in cui hanno trovato riparo più famiglie che vivono insieme. Si tratta di ruderi, palazzi non finiti o abbandonati. Spesso, i servizi di base non ci sono: manca l’acqua, sia per lavarsi che per bere, non c’è luce né riscaldamento e a volte, non c’è neppure il pavimento. Sono migliaia le famiglie siriane che vivono così, in tutta la regione.

Qui Intersos ha fatto diversi interventi di riabilitazione: pavimentato tutti i piani dell’edificio, riparato e messo in sicurezza il tetto, creato un impianto idrico che con cisterne e pompe garantisce acqua corrente alle famiglie insediate.

Due volte a settimana, i nostri assistenti sociali organizzano giornate di attività educative e ricreative per i tanti bambini che vivono lì: un’occasione per tornare a giocare, disegnare, apprendere ma anche per essere accompagnati da educatori capaci di identificare eventuali problematiche. Per le donne, le nostre operatrici tengono sessioni di ascolto e supporto, e corsi di formazione, anche su riparazioni e piccoli lavori di idraulica, perché possano, spesso sole a casa, essere autonome.

Questo è più o meno quello che Intersos fa in 42 collective site in tutta la regione, che si traduce in un aiuto concreto per quasi 270.000 persone.

Non è facile accettare che centinaia di migliaia di persone vivano nelle condizioni che ho visto nei campi che sorgono nella Bekaa. Montagne e piccoli agglomerati costellano un panorama fatto di altri ritmi e colori. Non c’è frenesia, ma una solenne lentezza che, nei campi, diventa quasi insostenibile.

Gli ITS (Informal tented settlement) della Bekaa sono, di fatto, veri e propri campi rifugiati, anche se il governo libanese non li riconosce ufficialmente (il governo libanese non riconosce nemmeno lo status di rifugiato).

A Majdal Aanjar, a sette chilometri dal confine con la Siria, ho camminato tra le tende, che poi nella maggior parte dei casi sono baracche, fatte di teli di plastica poggiati su travi di legno piantate su una base di cemento, in cui centinaia di famiglie vivono da quasi otto anni.

Non c’è acqua. Dopo un breve temporale, le strade del campo diventano un mare di fango. Ricordo perfettamente la difficoltà di camminare, il peso degli stivali infangati a ogni passo. L’elettricità passa attraverso ammassi di cavi aggrovigliati che spesso prendono fuoco, generando roghi in cui regolarmente qualcuno perde la vita. Le latrine, un paio ogni circa cento persone, sono buchi nel terreno coperti da lamiere. Centinaia di bambini con ciabatte rotte in mezzo al fango, giocano tra i rifiuti di chi si è insidiato nel campo: decine di cumuli di spazzatura si innalzano appena lontano dalle tende.

E una domanda mi accompagna da quando sono tornata: fuggire dalla guerra, salvarsi. Per cosa? Per vivere così?

Senza dignità, la sopravvivenza non è abbastanza. Perché anche chi nasce in un campo, deve poter godere dei diritti fondamentali e inviolabili di ogni essere umano.

Perché distribuire tende, costruire latrine, attivare cliniche mediche mobili nei quartieri appena liberati dai guerriglieri, riabilitare scuole, è solo il primo passo verso l’obiettivo finale che è, sempre, prendersi cura di ogni essere umano a cui sono negate dignità e sicurezza.

“Homo sum, nihil humani a me alienum puto”, la nostra carta dei valori inizia citando Terenzio. Mai come in questo periodo storico mi sembra importante ricordarlo.

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