Rischiare di perdere la casa. Di nuovo. Dopo una strage che la politica sembra aver dimenticato, nonostante sia sempre viva nella memoria collettiva di una Roma ancora ferita. Erano le 3.06 di mercoledì 16 dicembre 1998. Esattamente 20 anni fa. Senza un avvertimento, senza che una crepa pericolosa venisse mai segnalata o rilevata, un intero palazzo di via Vigna Jacobini 65, in zona Portuense, si sbriciolò all’improvviso portandosi via la vita di 27 persone, fra cui 6 bambini. Fu – si disse – la più grande tragedia della Capitale dai tempi del bombardamento di San Lorenzo e delle Fosse Ardeatine. Un’intera città già divenuta metropoli si strinse come una comunità intorno ai sopravvissuti. “Miracolati” che in un attimo persero tutto: la famiglia, gli affetti, la casa, i ricordi di una vita. Le più alte cariche del Paese si presentarono ai funerali di Stato ripetendo in coro il più classico dei “non dimenticheremo”. L’allora sindaco Francesco Rutelli mosse immediatamente gli uffici capitolini e trovò ai superstiti una nuova casa. “Ora dovete rifarvi una vita”, affermò qualche settimana dopo il primo cittadino, consegnando alle persone in lacrime le chiavi degli appartamenti di via Ginori 41, edificio di proprietà del Comune nel cuore del quartiere Testaccio.

IL CALDERONE DI AFFITTOPOLI – Oggi, a 20 anni esatti, la beffa delle beffe: il Comune di Roma rivuole indietro gli appartamenti per venderli all’asta. Senza nemmeno proporre un adeguamento del canone di affitto o un diritto di prelazione. “Fanno parte del patrimonio disponibile, non di quello Erp”, ripetono i tecnici capitolini. Una differenza che per anni è stata difficile da comprendere per fior fior di burocrati, figuriamoci per persone comuni che mai, prima, avevano elemosinato nulla allo Stato. Il calderone in cui sono finite – loro malgrado – è quello di Affittopoli, il grande scandalo recente della Capitale con centinaia di immobili di pregio, residenziali o meno, assegnati per anni a partiti politici, associazioni di destra e di sinistra, imprenditori amici e famiglie più che benestanti, in cambio di indennità d’uso ridicole, spesso mai pagate e con contratti scaduti e mai rinnovati. Un caos totale che portò, fra l’altro, la Corte dei Conti a condannare Romeo Gestioni – la società di Alfredo Romeo chiamata nel 2005 da Walter Veltroni a gestire il patrimonio capitolino – al risarcimento di 1 milione di euro. Così, nel tentativo di rimettere ordine, il 5 giugno 2018 la giunta capitolina ha approvato una delibera che impone, in sostanza, la riacquisizione di ben 416 immobili e 72 pertinenze presenti nel Municipio I Centro Storico, riferiti al cosiddetto “patrimonio disponibile”. Che, per la cronaca, riguarda quegli immobili di proprietà del Comune che non sono (in teoria) destinati all’emergenza abitativa e che servono agli enti per fare “cassa” o come garanzia nei rapporti con le banche.

L’ASTA E GLI AFFITTI ARRETRATI – “La sciatteria amministrativa è di chi gli ha dato quelle case, non certo la nostra”, ripetono oggi i tecnici del Comune. E la burocrazia, quando ci si mette, non guarda in faccia a nessuno. Specie se di mezzo c’è la magistratura (contabile), che negli ultimi 3 anni ha indagato decine di dirigenti e funzionari sul tema. Sin dal luglio scorso, il Dipartimento Patrimonio ha iniziato a scrivere ai 6 nuclei familiari di via Ginori, avvertendoli dell’avvio della procedura di sfratto. “Le case finiranno all’asta – spiega Yuri Trombetti, responsabile casa Pd Roma – A queste persone non è stata data alcuna prospettiva. Dopo tutto quello che hanno passato. Come se chi c’è oggi venisse da Marte”.

Alle famiglie sono stati chiesti anche gli arretrati. Per i primi 4 anni, infatti, su indicazione della giunta Rutelli, i superstiti hanno vissuto gratis, per poi iniziare a pagare un affitto calmierato. E questa estate, nella cassetta della posta, si sono ritrovati avvisi di pagamento anche di 20mila euro. “Questa casa cadeva a pezzi e l’ho rimessa a posto con le mie mani e con i miei soldi”, racconta a IlFattoQuotidiano.it Rino Fumaselli, vigile del fuoco. Rino, 50 anni, nel crollo perse i genitori e due fratelli. Lui si salvò perché quella notte era di turno e, fra l’altro, era parte della squadra che accorse a via Vigna Jacobini. “Quel palazzo non era del Comune. Nessuno di noi ha mai elemosinato nulla. Ci diedero la casa, ci dissero che per quattro anni non avremmo pagato. Abbiamo fatto quello che ci dicevano. In una delle ultime riunioni, qualche funzionario ci ha detto che ormai, dopo 20 anni, una vita ce la siamo rifatta. Queste non sono tragedie che vanno in prescrizione, è qualcosa che ci porteremo per tutta la vita”.

IL COMUNE: “ASSITEREMO LE FRAGILITÀ” – Le 6 famiglie si sono costituite in un comitato. Hanno provato a trattare con il Campidoglio. Vogliono rimanere lì, anche provando a concordare un affitto idoneo ai prezzi di mercato per un quartiere, Testaccio, che ormai di popolare ha ben poco. “Ma questa casa, quando moriremo o se decideremo di andarcene, tornerà al Comune. Di cosa si preoccupano? – riflette ancora Rino – Ora no, ora sarebbe come veder crollare la propria casa un’altra volta”. Dal Campidoglio confermano tutto. La procedura, la necessità di riacquisire le abitazioni. L’iter burocratico che accomunerà queste persone ai furbetti del Colosseo. “E’ stato subito avviato – la risposta ufficiale dell’Assessorato Patrimonio e Politiche Abitative – un tavolo di confronto con i cittadini per esaminare le singole posizioni, al fine di tutelare i nuclei familiari in condizioni di fragilità e valutare le soluzioni più idonee alle specifiche situazioni”. Esattamente lo stesso iter che si segue quando si operano sgomberi di occupazioni abusive (Baobab e ex Pennicillina gli ultimi esempi).

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