“Un campanello di allarme per il mondo”. Così Greenpeace definisce il rapido scioglimento dei ghiacciai nelle province cinesi del Xinjiang, Qinghai e Gansu, situate nelle aree nord-occidentali del Paese asiatico. “I ghiacciai in Cina forniscono acqua a 1,8 miliardi di persone e si stanno sciogliendo troppo velocemente”, dice Liu Junyan, attivista di Greenpeace East Asia. “In pochi mesi, intere comunità sono state costrette ad abbandonare le proprie case minacciate dal pericolo di allagamenti – spiega – È fondamentale velocizzare la transizione dai combustibili fossili ad altre fonti di energia rinnovabile al fine di mantenere il riscaldamento globale al di sotto degli 1,5 gradi.”

Secondo un rapporto rilasciato dalla Ong, analisi satellitari mostrano che la riduzione dei ghiacciai nelle remote regioni occidentali della Cina sta procedendo a un ritmo doppio rispetto a trent’anni fa. Lo dimostra il preoccupante rimpicciolimento del Tianshan n. 1, nello Xinjiang occidentale, passato da una media di 5.000 metri quadrati tra il 1962 e il 1986 ai 10.600 metri quadrati del periodo 1986-2018. Dal 1964 a oggi l’area totale è diminuita del 22,2% e a causa dell’aumento delle temperature nel 1993 il ghiacciaio si è diviso in due parti.

Ma quest’anno il fenomeno ha raggiunto il livello di guardia dopo che lo scorso agosto il rilascio di 25 milioni di metri cubi di acqua nel bacino del fiume Yarkand ha costretto i residenti a lasciare l’area. A stretto giro, intorno alla metà di ottobre, il crollo di un ghiacciaio in Tibet ha provocato l’interruzione del corso del fiume Yarlung Zangbo, causando l’evacuazione di 6.600 persone.

Oltre la Grande Muraglia si contano oltre 48.000 ghiacciai, la più grande concentrazione di ghiaccio e neve al di fuori delle regioni polari, soprannominata non a caso “Terzo Polo”. Secondo il report, dagli anni ’50 del secolo scorso a oggi, in Cina, oltre l’82% dei ghiacciai si è ritirato, mentre il volume dell’acqua provocata dal disgelo è aumentato del 53,5%. L’ong olandese non è l’unica a dirsi preoccupata. Lo scorso settembre, l’Accademia cinese delle scienze (CAS), il principale think tank scientifico governativo del paese, calcolava che negli ultimi cinquant’anni il cambiamento climatico è già costato all’altopiano tibetano – tra la regione autonoma del Tibet e la provincia del Qinghai – il 15% dei suoi ghiacciai.

La seconda economia mondiale si è impegnata a raggiungere il picco delle emissioni di carbonio entro 2030, come previsto nell’ambito dell’Accordo di Parigi siglato nel 2015, che mira a mantenere l’aumento medio della temperatura globale “ben al di sotto” dei 2° C rispetto ai livelli preindustriali. Stando a uno studio dell’Intergovernmental Panel on Climate Change pubblicato il mese scorso, le zone ad alta quota come l’altopiano tibetano saranno le più vulnerabili in caso di un aumento della temperatura globale superiore a 1,5° C. Di più: secondo un altro rapporto della CAS, se così fosse la Cina dovrà far fronte a siccità più prolungate e alluvioni più intense.

Ora tutti gli occhi sono puntati sulla conferenza mondiale sul clima, la Cop 24, iniziata il 3 dicembre a Katowice, in Polonia. Il vertice in corso ha l’obiettivo di finalizzare i dettagli dell’accordo di Parigi soprattutto in merito alle modalità con cui i singoli Paesi saranno tenuti a osservare gli impegni presi in materia di emissioni. La Repubblica popolare ha già messo in chiaro di pretendere standard più flessibili per i Paesi in via di sviluppo, di cui si sente parte. E con il ripiegamento americano sono in molti a temere che l’assenza di un contrappeso finirà per lasciare l’agenda interamente in mano a Pechino.

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