Per i sindacati sono “gravissime anomalie rispetto all’applicazione dei criteri di legge in ambito selettivo del personale”. Per i cittadini, invece, è un’epurazione, un’azione mirata a liberare la fabbrica da operai sgraditi. Accade ancora una volta all’Ilva di Taranto, la fabbrica siderurgica che lo Stato ha ceduto ad Am InvestCo guidata dal gruppo Arcelor Mittal. Il pomo della discordia tra nuova proprietà e comunità ionica è la “selezione” dei lavoratori che dal 1 novembre passerà alle dipendenze degli acquirenti. Nelle scorse ore, infatti, sono giunte a oltre 2586 lavoratori lettere per l’avvio della cassa integrazione straordinaria. Una selezione che doveva seguire criteri rigidi e ben definiti, ma che invece – a detta degli epurati – ha falciato l’ala più intransigente degli operai. Come quelli appartenenti al Comitato cittadini Liberi e pensanti che dal 2 agosto 2012 è una vera e propria spina nel fianco per i vertici aziendali. La missiva afferma che la collocazione in Cigs è il frutto dell’accordo ministeriale del 6 settembre scorso dato che chi l’ha ricevuta non rientra “tra i destinatari di proposta di assunzione da parte di Am InvestCo o società affiliate o, in alternativa, tra coloro che hanno aderito al piano di incentivazione all’esodo oggetto di intesa sindacale”.

Dal 31 ottobre quindi in tanti non dovranno presentarsi in fabbrica. Come Massimo Battista, consigliere comunale ex M5s (nel gruppo misto dopo le dimissioni dal Movimento in seguito all’accordo tra Governo e Arcelor) nonché uno dei leader dei Liberi e pensanti. Poco dopo aver ricevuto telematicamente la comunicazione aziendale ha reso nota la questione sui social network: “Dopo 21 anni dove ho subito licenziamenti, allontanamenti e contestazioni disciplinari a non finire, ci siete riusciti a farmi fuori, la squadra da battere questa volta era forte: azienda, sindacati e Governo del “Cambiamento”. Purtroppo quando ti metti contro un sistema marcio questi sono i risultati. Ma non finisce qui…”. Altrettanto ha fatto Domenico Rito, uno degli operai che ha denunciato il sistema del ‘Governo ombra‘ che i Riva avevano imposto allo stabilimento Ilva con i propri fiduciari. La lettera è giunta anche a Raffaele Cataldi, altro esponente di primo piano del Comitato.

L’accordo prevedeva che 10.700 dipendenti in tutti gli stabilimenti del gruppo (di cui 8200 a Taranto) passeranno, dal 1 gennaio 2019, alle dirette dipendenze del gruppo indiano: nei mesi di novembre e dicembre sono invece considerati in distacco dall’amministrazione straordinaria Ilva. Per i 2586 in esubero, invece, il contratto stabiliva che sarebbero formalmente rimasti alle dipendenze dell’amministrazione straordinaria e collocati in cassa integrazione straordinaria a zero ore: solo 300 saranno utilizzati per le bonifiche mentre alcune centinaia di lavoratori aderiranno all’esodo volontario con incentivo. A Taranto, però, in molti hanno già rievocato lo spettro della Palazzina Laf, il luogo in cui i Riva, al loro arrivo a Taranto a metà degli anni ’90, confinarono gli operai che non accettavano e protestavano contro le nuove condizioni di lavoro. Un fantasma, fermato solo grazie all’intervento della magistratura, che con l’arrivo dei nuovi padroni sembra tornare ad aleggiare sugli operai dello stabilimento ionico.

Dopo la diffusione della notizia Fim, Fiom, Uilm e Usb di Taranto hanno inviato una lettera all’amministratore delegato di Am InvestCo Italia, Jehl Matthieu, e per conoscenza al Ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio, segnalando “gravissime anomalie rispetto all’applicazione dei criteri di legge in ambito selettivo del personale” e “molteplici incongruenze palesi sui criteri della professionalità, anzianità e carichi familiari, per effetto dei quali non vi è più ombra di dubbio come la selezione per centinaia dei distacchi sia stata operata attraverso criteri unilaterali da parte dell’azienda, di fatto al di fuori di quanto previsto dall’accordo”. Le organizzazioni sindacali hanno chiesto “l’assoluto rispetto dell’accordo e il non discrimine dei lavoratori” annunciando oltre alla “possibilità eventuale di ricorsi collettivi ed individuali” anche “forme di protesta presso la sede del Ministero dello Sviluppo Economico” in assenza di risposte esaustive. Era stato definito un accordo storico quello firmato da sindacati e Arcelor Mittal nei primi giorni di settembre con la benedizione del vice premier Luigi Di Maio: sono trascorsi meno due mesi e l’amore tra Governo, sindacati e proprietà sembra già miseramente franato. Interpellata da ilfattoquotidiano.it, Arcelor Mittal ha dichiarato che l’incontro in programma il prossimo 8 novembre al Mise “sarà l’occasione per ascoltare i dubbi e le rimostranze delle organizzazioni sindacali e per chiarire le nostre posizioni ribadendo che i criteri concordati sono stati pienamente rispettati”.

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