Faccio una scommessa: tra qualche mese chi ha votato Lega e Cinque Stelle urlerà tutta la propria delusione. Chi oggi applaude a ogni batter di ciglia il governo Salvimaio si schianterà contro il fallimento di chi si è spacciato troppo presto come rivoluzionario.

Capisco la speranza. Perché davvero della politica italiana c’era poco o niente da difendere. E quindi, alla fin dei conti, la rivolta è cosa buona e giusta. Capisco molto meno l’illusione. Perché la strategia economica di questa diarchia leghista-grillina è oggettivamente in perfetta sintonia con quella di troppi decenni precedenti.

La faccio semplice: servono più investimenti e meno spesa corrente, più crescita economica, più infrastrutture, più ricerca, più cultura, più turismo. E lo Stato deve essere il protagonista di questa rinascita. Lo dicono in tanti ma poco di tutto questo è stato fatto dalla politica italiana, pochissimo di tutto questo verrà fatto da questo governo. Non lo dico io, lo dicono loro.

È una questione purtroppo culturalmente strategica. Sia la Lega sia i Cinque Stelle hanno in modo diverso il vizio antico del piccolo cabotaggio, degli obiettivi terra terra, del minimo sindacale. Una grande nazione che si limita a combattere l’immigrazione e a istituire una parvenza di reddito di cittadinanza non è più una grande nazione. E non vuole nemmeno diventarlo.

Per esserlo bisognerebbe fare tutt’altro, bisognerebbe innanzitutto apportare correttivi alla manovra dando all’Italia la speranza di un obiettivo comune di crescita, che ci allontani da un altrimenti certo declino. Bisognerebbe avere la forza di lanciare la sfida, anche litigando con l’Europa se necessario, ma in nome di una grandezza da ritrovare con il coraggio dell’azzardo. Non certo di una piccolezza di prospettive che porterà l’Italia dove sta da decenni: sempre più ai margini della storia. E non potrà che essere così finché la politica racconterà una storia troppo ridicola per diventare davvero grande.

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