Spinte antimoderniste, fobie anticonsumistiche. Rigidità sindacali fuori del tempo ed esaltazione del “piccolo” contro la grande distribuzione. Si sprecano le accuse al governo dopo l’annuncio del ministro e vicepremier Luigi Di Maio di “una legge entro l’anno” per limitare le aperture domenicali dei negozi con un meccanismo di turnazione. Lo scontro politico sul tema è stato immediato ed è destinato ad acuirsi dal 13 settembre in poi, quando la commissione Affari Costituzionali della Camera inizierà a discutere le diverse proposte di legge in campo. L’accusa è di voler rimettere indietro le lancette dell’orologio, a scapito di migliaia di posti di lavoro. Cosa succederebbe se lo si facesse davvero? Si scoprirebbe che – comunque la si pensi – attenzione e accelerazione sul tema non sono affatto un’esclusiva del governo giallo-verde (nel cui “contratto di governo” per altro la misura in questione neppure è menzionata).

A ben vedere negli ultimi anni tutti i partiti, seppure con diverse sensibilità e intenzioni, si sono posti il problema di come arginare gli effetti negativi della liberalizzazione avviata con l’abolizione delle licenze di Bersani (1999) e approdata alla deregolazione totale degli orari di Monti, nel 2011. Per appurarlo basta una disamina delle varie proposte di legge depositate da allora. Gli archivi di Camera e Senato sono zeppi di testi volti a “modificare le disposizione in materia di orari di apertura degli esercizi commerciali”: ben sette nell’attuale legislatura, da maggio a settembre (con una media di oltre una al mese) contro le 8 in cinque anni di quella precedente. L’accelerazione, nei fatti, c’è stata da parte di tutti i partiti. Nessuno risulta realmente estraneo alla questione.

Non fa eccezione il centrosinistra, a dir poco freddo verso l’impegno annunciato da Di Maio, con Matteo Renzi che ha attaccato scrivendo su Facebook: “Ho 43 anni e lavoro di domenica da quando a 20 anni distribuivo giornali per pagarmi l’università (…) Se però la domenica vuoi bloccare tutto, allora sii coerente: niente treno, niente stadio, niente bar, niente cinema”. Appena sei mesi dopo il “Salva Italia” del dicembre 2011, il Partito Democratico depositava una testo di legge volto a rimettere nelle mani dei sindaci la regolamentazione degli orari degli esercizi, da predisporre con piani territoriali su base triennale, “in modo da garantire la piena e costante fruibilità dei cittadini nel rispetto della tutela dei diritti dei lavoratori”. Firmano, tra gli altri, Pina Picierno, Roberto Castagnetti e Paolo Benamati. Ma è solo una delle proposte in campo. Impossibile non citare quella di ex senatori dem del dicembre 2015 (Ricchiuti, Ferrara…) volta ad “annullare l’obbligo di lavoro nei giorni festivi”, con tanto di multe fino a 300 euro “per ogni prestazione lavorativa imposta”.

Il Pd ha continuato a formulare proposte e una – quella a firma di Gianluca Benemati, approvata nella scorsa legislatura come testo unificante di altre proposte di vari partiti – è oggi all’esame della commissione. Prevede una limitazione piuttosto blanda, con il divieto di apertura 12 giorni l’anno tra domeniche e festivi, salvo comunicazione ai sindaci, grazie alla quale potranno derogare per metà di queste giornate. Al tempo stesso agisce sui negozi con meno di 10 dipendenti danneggiati dalla grande distribuzione con un fondo di 78 milioni per ampliamento attività e acquisto di strumenti (pos, telecamere…). In ogni caso ammette l’urgenza della questione.

Non meno ricca la produzione di proposte del Pdl che oggi è forse il partito più critico verso la stretta. Renato Brunetta ha bollato la campagna dei Cinque Stelle e del Ministro Di Maio come una “proposta folle”, una “operazione impossibile, già che da norma centralistica contrasta col Titolo V della Costituzione e l’autonomia delle Regioni nel regolare l’attività dei negozi”. E invero nella scorsa legislatura una proposta del Pdl firmata Ignazio Abrignani, cioè il vicepresidente della Commissione Attività Produttive della Camera, sanciva la deregolamentazione concedendo ai comuni la facoltà di compiere rilevazioni utili a potenziale e sostenere l’offerta dei centri commerciali aperti la domenica. Ma sul punto la linea di partito non è granitica. Con un solo articolo e senza specificare limitazioni il collega Antonino Minardo (Pdl) consentiva ai comuni  di “regolamentare gli orari di apertura (…) al fine di garantire ai lavoratori il diritto a un adeguato riposo domenicale o festivo nonché alla conciliazione tra lavoro e famiglia”. Insomma, non il divieto ma una certa disponibilità a cambiare le regole del gioco per “contemperare le richieste di apertura dei cittadini, le richieste di riposo dei lavoratori e le richieste di maggior guadagno degli operatori”.  Sembrano riecheggiare gli anatemi di Di Maio sugli schiavi della domenica.

E siamo alla Lega che non da ora si batte contro aperture domenicali e nei giorni festivi, pur avendo accompagnato di buon grado piani territoriali di sviluppo dominati da rotonde e centri commerciali a perdita d’occhio. Complice il cambio del nome, solo in questa legislatura coesistono la proposta (per la Lega) presentata il 29 maggio dal deputato Massimo Bitonci (non assegnata), quella del 7 agosto scorso a firma Massimiliano Romeo (Gruppo Lega-Salvini Premier-Partito Sardo d’Azione) e infine quella di Barbara Saltamartini ereditata dalla scorsa legislatura che vuole ripristinare l’obbligo di chiusura domenicale e festiva, salvo poche eccezioni (turismo, balneazione). Tutti gli altri esercizi dovranno adeguarsi agli orari fissati dalle regioni (entro il 31-12-2018) che consentiranno deroghe solo a dicembre e in altre quattro giornate l’anno, tra domeniche e festivi.

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