E’ doveroso augurare ogni fortuna all’esecutivo appena insediatosi. Se soltanto la prima riunione del Consiglio dei ministri si potesse tenere in una delle tre tensostrutture con bagni chimici esterni montate in fretta e furia in un parcheggio antistante il Palazzo di giustizia di Bari – dopo lo sgombero decretato dal rischio di crollo strutturale – forse l’intera compagine governativa avrebbe ben chiara la scala di priorità della propria futura azione di governo. La vicenda barese fornisce infatti una plastica rappresentazione simbolica e pratica delle crepe di uno Stato che, come ci ha soavemente ricordato il presidente della Commissione europea Juncker, viene letteralmente eroso dalla corruzione, tanto nell’integrità del suo patrimonio immobiliare che nella sua legittimità agli occhi dei cittadini.

La storia del Tribunale di Bari sembra infatti un distillato dei mali italici, nel loro viluppo inestricabile. La Procura barese ha avviato un procedimento contro ignoti, nell’ipotesi che siano state violate norme sulla sicurezza del lavoro. Ma la denuncia delle “criticità strutturali” delle fondamenta e dei solai era già all’ordine del giorno nel 2010, quando partirono lavori di consolidamento rivelatisi inutili – in definitiva, soltanto uno sperpero aggiuntivo di fondi pubblici. Anni di denunce inascoltate, con procedimenti avviati e conclusisi con l’archiviazione: nessun responsabile è stato individuato per i lavori di rattoppo edilizio inutili o mal realizzati.

Ma il vizio, come spesso accade in casi come questo, va ricercato all’origine. Non sorprenderà scoprire che ancor prima delle indagini sulle criticità della struttura, già all’inizio degli anni 2000, i due costruttori del palazzo fossero stati coinvolti in due distinti procedimenti penali per abuso edilizio in un caso, frode in pubbliche forniture, truffa ai danni dell’Inail e del Comune e falso nell’altro. Purtroppo l’instabilità dell’edificio che ospita il Tribunale sembra aver avuto ripercussioni negative anche sulla rapidità dei procedimenti a loro carico, che dopo una condanna in primo grado si sono avviati sul binario morto della prescrizione. Anche in questo caso, dunque, nessun responsabile.

Non è certo una novità. In Italia le probabilità di farla franca contando sulla lungaggine dei procedimenti giudiziari sono direttamente proporzionali allo status socio-economico dell’imputato, a prescindere dal danno inflitto alla collettività. In un caso come questo poi quel costo è semplicemente incalcolabile. Di certo va ben oltre le crepe nel cemento del palazzo sgomberato. La giustizia a Bari è oggi pressoché paralizzata: nelle tensostrutture surriscaldate e infestate di zanzare si aprono quotidianamente centinaia di udienze che durano per i pochi minuti necessari a sancire il rinvio a fantomatiche date future. Detta altrimenti, si vanno creando legalmente le condizioni per ulteriori prescrizioni e impunità. Quanto vale la negazione della giustizia che sarà prodotta dalla “corrosione” dell’edificio?

Riepiloghiamo: da quindici anni il Ministero della Giustizia riceve segnalazioni della situazione critica del Palazzo di Giustizia di Bari, indotta da una realizzazione edilizia sulle quali grava il sospetto – vedi le condanne di primo grado – di serie irregolarità e per la quale ulteriori interventi si sono rivelati inutili, ma lascia deteriorare la situazione fino a determinare una situazione straordinaria, che a sua volta aprirà altre allettanti opportunità di arricchimento – lecito e illecito – per chi si troverà a intercettare le risorse stanziate per la loro gestione, fornendo spazi o strutture, o aggiudicandosi appalti con procedure emergenziali. Intanto i protagonisti di quella vicenda, mai condannati in via definitiva grazie alla prescrizione, hanno posto le premesse affinché la loro condizione d’impunità venisse generosamente condivisa nel territorio barese, visto che lo sgombero ha trasformato l’ordinaria vischiosità in un blocco completo, di durata imprevedibile, di tutti i procedimenti giudiziari. Ed ecco che i tre ingredienti dell’indigeribile cocktail del malgoverno fermentano l’uno grazie alla presenza dell’altro: inefficienza, corruzione, impunità.

I cinefili proveranno forse una sensazione di deja vù. Era il 1971 quando Dino Risi girava uno dei suoi capolavori: In nome del popolo italiano. E’ la storia profetica dello scontro tra Ugo Tognazzi, magistrato integerrimo, e Vittorio Gassman, prototipo del palazzinaro spregiudicato e inquinatore. Mentre l’imprenditore nelle sue ville faraoniche organizza festini mascherandosi da centurione romano, il magistrato lavora negli uffici fatiscenti di un tribunale che rischia di rovinargli sulla testa, fino all’inevitabile sgombero. Nei panni dell’ingegner Santenocito, illustrando il progetto dell’ennesimo scempio edilizio in riva al mare ad alcuni investitori svizzeri, Gassman si lascia andare a una confessione che vale la pena riportare integralmente: “Qui sorgerà il più grande complesso alberghiero della zona d’Aprilia, i tre grattacieli della Cement-Mare (…) e questa fra parentesi, cari amici svizzeri, è una concessione che ci è costata una lunga fila di zeri. D’altra parte, la corruzione è l’unico modo per sveltire gli iter e quindi incentivare le iniziative. La corruzione, possiamo arrivare a dire paradossalmente, è essa stessa progresso…”.

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