Il contratto di governo pubblicato nei giorni scorsi affronta la questione dell’acqua con serietà e la pone, a differenza del passato, tra le priorità del Paese. Riconoscere un esito popolare tuttora disatteso – il risultato del referendum del 2011 sull’Acqua bene comune – è un segnale importante per recuperare un po’ di fiducia nella democrazia.

Nello stesso tempo, “restituire ai cittadini una rete di infrastrutture idriche degne di questo nome” – o almeno innescare un percorso virtuoso in tale direzione – è un obiettivo ambizioso ma necessario a fermare il declino del Paese. I problemi del sistema sono noti da almeno 40 anni. Allora, il mio professore di costruzioni idrauliche magnificava il sistema babilonese di distribuzione “a bocca tassata” ancora in uso a Genova e oggi sostituito dai contatori. Una delle poche novità, nel frattempo, giacché gli stessi dati allarmanti sulle reti colabrodo di questi giorni, si possono leggere tali e quali sui periodici degli anni di piombo.

Negli ultimi 20 anni, la diminuzione dei consumi ha in parte lenito la piaga, non certo sanata dal ricorso taumaturgico agli investimenti privati, invocati a partire dagli anni 90 e perseguiti con esiti incerti dalle liberalizzazioni. Tutti concordano a voce alta che sono necessari investimenti cospicui. Pochi ammettono che non è soltanto una questione di soldi, ma che ci vuole anche “intelligenza”, passione e competenza. Soprattutto in ambito tecnico, del tutto asservito alla economia e alla finanza, alla organizzazione amministrativa e al controllo di gestione.

In Italia gli acquedotti hanno una tradizione più che millenaria, se gli imperatori romani lasciarono ai barbari una città servita da ben 11 acquedotti. Parto però da Milano, la cui moderna storia idraulica inizia alla metà dell’800. La raccontò uno scienziato dell’epoca, Antonio Stoppani, con stile ameno e vivace nell’Iliade brembana, ossia difesa del progetto adottato dal consiglio comunale di Milano per l’introduzione dell’acqua potabile (1883). Una vicenda di quasi 150 anni fa, quando i bergamaschi si opposero fieramente al progetto dei milanesi di derivare le acque potabili dal fiume Brembo. E nonostante le “savie considerazioni di economia pubblica” che produsse l’insigne geologo per blandire l’ira ambientale dei brembani, Milano decise infine di usare la falda per alimentare l’acquedotto; e fu la sua fortuna: da allora il capoluogo meneghino ha uno dei sistemi più efficienti al mondo con costi tra i più bassi d’Europa. Dai 7 miliardi di litri prodotti nel 1900 si passò a 107 nel 1930 e a 336 nel 1970. E l’Acquedotto civico – da sempre con le perdite più basse d’Europa, inferiori al 10% – recò sempre profitto alle casse comunali.

Se ogni italiano consuma meno acqua potabile rispetto agli anni 70, circa il 20% in meno, oggi Milano distribuisce 225 miliardi di litri all’anno, il 35% in meno che nel 1970. E la tariffa continua a essere tra le più basse del mondo occidentale, giacché varia tra 14 euro ogni 100 metri cubi per gli utenti risparmiosi (fino a 350 litri al giorno per appartamento) ai 49 euro ogni 100 metri cubi per gli scialacquoni (per la quota di consuma che supera 750 metri cubi al giorno). Controllando l’ultima bolletta, mi accorgo di aver speso circa 19 euro ogni 100 metri cubi d’acqua potabile che mi hanno fornito.

Se Milano è un esempio virtuoso che meriterebbe più attenzione, in Italia la forchetta delle tariffe è tra le più ampie d’Europa. Spostandomi di qualche chilometro − per esempio a Segrate, un comune sul confine est di Milano, parte di un ambito diverso e servito da un gestore diverso da quello del capoluogo − la tariffa varia tra 28 euro (tariffa agevolata per uso domestico) e 46 euro (tariffa base per uso domestico) ogni 100 metri cubi. Ma se percorro lo stivale in lungo e in largo, le differenze diventano abissali.

Gli scaglioni di consumo hanno il duplice ruolo di premiare chi risparmia e rispettare la proporzionalità del reddito, poiché ben sappiamo che il consumo pro-capite cresce con il reddito. Consultando il Blue Book 2017 pubblicato da Utilitatis − una miniera di informazioni − si osserva una molteplicità di interpretazioni della tariffa, sia per scaglioni di consumo, sia per valori monetari specifici. Per esempio, il primo scaglione (quello dei risparmiosi) varia da 20 metri cubi all’anno fino a 128. L’ultimo, quello degli scialacquoni, da 92 a 552 metri cubi all’anno. La tariffa varia a tal punto che è quasi impossibile fare confronti, giacché ci sono cittadini italiani che pagano l’acqua anche 10volte più cara rispetto a un milanese.

Non c’è dubbio che in Italia clima, geomorfologia e idrologia disegnano un panorama assai sfaccettato, che comporta costi di approvvigionamento e distribuzione giocoforza diversi. Andrebbe però capito meglio se tale varietà comporti davvero una variabilità così ampia per le tasche dei cittadini. E va anche stabilito con trasparenza come declinare in pratica il principio dell’Onu che definisce l’acqua un “diritto umano universale e fondamentale”. Oggi l’Italia è un vestito d’arlecchino dove le differenze geografiche e gestionali creano un patchwork più complicato che complesso.

Se la complessità non va mai sottovalutata, la complicazione inutile va combattuta. Il modello gestionale non è la cosa più importante, poiché l’acqua pubblica ha sfaccettature assai più complesse e comporta sfide assai più temerarie che riordinare un sistema acquedottistico frantumato. Ma da qualche parte bisogna pur cominciare e la definizione di un modello meno frastagliato è una necessità. E dò un consiglio a chi avrà l’onere di affrontare il problema: tenere in bella vista sul proprio comodino l’Iliade brembana.

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