C’è una vasta letteratura scientifica a ricordarci che quella del nomadismo legato delle comunità rom sia solo una leggenda metropolitana, utile però negli ultimi 30 anni a giustificare la progettazione e la costruzione di “riserve” denominate “campi nomadi”. La frase: “Sei nomade? Devi ‘nomadare’” – coniata da Giorgia Meloni ma concettualmente anticipata nel 2008 da Gianni Alemanno e ciclicamente ripresa da esponenti vicini alla destra estrema – è una clamorosa fake news sopravvissuta per 10 anni perché sottende la necessità di delineare nel paesaggio urbano spazi in cui circoscrivere quanti, per natura e cultura, non riuscirebbero a essere sedentari.

Sono i “campi nomadi”, diventati nel linguaggio politicamente corretto “campi rom” o “mega insediamenti monoetnici”. Chiamiamoli come vogliamo ma sempre misere baraccopoli istituzionali restano. In Italia sono quasi 150. Si tratta di aree di violazione dei diritti, hanno costi insostenibili, rappresentano la dannazione di chi abita nella loro prossimità. Tutti invocano l’urgenza di superarli: dalla destra alla sinistra, dal terzo settore all’accademia, dai media all’Europa. Eppure quando qualcuno ci prova mettendo mano alla legge che dispone la loro costruzione si sollevano critiche. Il 26 aprile la Repubblica ha riportato la notizia della proposta avanzata dal consigliere regionale di +Europa Alessandro Capriccioli di abrogare la legge della Regione Lazio n.82 del 19853, norma che stabilisce e regolamenta la costruzione dei “campi rom”. Una notizia sicuramente importante, un indubbio elemento di discontinuità rispetto al passato che ha però sollevato immediate obiezioni.

Ma c’è ancora qualcuno, oggi, che ritiene che i “campi rom” vadano mantenuti? Nel pensiero comune prevale l’idea che i “campi nomadi” siano stati il frutto delle politiche della cultura maggioritaria, perché nessun rom (oggi come in passato) ha mai chiesto che si formassero. Ma siamo così sicuri nell’insistere su divisioni così nette oppure esistono zone grigie con sfumature diverse di colpe e responsabilità?

Incontestabile è che le prime e più importanti responsabilità sulle politiche discriminatorie che hanno portato alla costruzione dei “campi nomadi” siano da attribuire a quelle autorità che – ritenendo che i rom fossero “nomadi” – hanno ben pensato di inaugurare negli anni Ottanta la “stagione dei campi”. Anche ad una parte del mondo associativo vanno riconosciute precise responsabilità (Mafia Capitale docet). Però non possiamo nascondercelo: attorno ai grandi “campi rom” hanno talvolta avuto un ruolo chiave figure di rom con pochi scrupoli, “compagni di merende” di rappresentanti istituzionali o presidenti di associazioni, impropriamente denominati “capi campo” o addirittura “rappresentanti”. Ignorarlo significherebbe rimuovere la genesi di alcuni “campi” dove il ruolo di questi intermediari rom è stato fondamentale per la loro costruzione e per il loro mantenimento.

Pensiamo – per restare sulla Capitale – alla costruzione del più grande insediamento italiano (il campo di Castel Romano avvenuta nel 2005), alla deportazione (cinque anni dopo) dei rom dal Casilino 900 verso campi “nuovi e moderni”, al tentativo da parte di un soggetto privato di realizzare (nel 2013) un nuovo insediamento a La Barbuta con il concorso di persone interne al vecchio insediamento. Sono solo alcuni esempi dove la funzione assunta da persone rom è risultata decisiva. Si potrebbe andare oltre ricordando il ruolo di un esponente dei Casamonica (rom abruzzese) nel convincere le comunità (rom bosniache) di Castel Romano a ingrandire l’insediamento. Erano gli anni in cui scorreva il denaro di Mafia Capitale.

Chi frequenta alcuni “campi” romani, conosce bene il ruolo di queste figure che di giorno siedono con giacca e cravatta attorno ai tavoli degli amministratori locali e nazionali, arrivando fino a Bruxelles, mentre di notte esercitano una funzione di controllo (anche violento) dentro la comunità. Fuori dal Raccordo Anulare, una storia diversa ma emblematica riguarda il nuovo “villaggio rom” di Scampia, progettato dall’amministrazione di Napoli con il placet di “rappresentanti rom” e bloccato nel 2015 dall’Europa perché ritenuto “non in linea con i più alti valori dell’Unione, vale a dire i diritti, le libertà e i principi riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue“. I rom interessati erano contrari ma a Palazzo san Giacomo era la voce dei “rappresentanti” a essere ascoltata.

Forse è venuto il tempo di dissipare le ombre perché quando si parla di progetti sui rom e di “campi nomadi” scatta l’automatismo di puntare il dito contro dirigenti comunali o esponenti dell’associazionismo, additandoli come il “male assoluto” e come unici protagonisti colpevoli del “magna magna”. Un po’ di chiarezza sarebbe utile anche dentro alcune comunità rom, dove si annidano responsabilità individuali che solo un ipocrita senso del pudore ha impedito sino a ora di svelare.

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