Musica

Roger Waters, la recensione del concerto al Forum di Assago: dalla toccante Time alla perfezione di Mother. La serata brano per brano

La serata del tour “Us + them” al Forum di Assago rivissuta canzone per canzone: Deja vu, il migliore degli inediti, mentre l'esecuzione di Wish You Where Here è semplicemente epica

di Andrea Scanzi

Recensione brano per brano della data di “Us + them” andata in scena il 18 aprile 2018 al Forum di Assago di Milano. Cioè ieri. Avevo visto lo stesso tour l’11 settembre 2017 a New York, Barclays Arena, e lo vedrò anche il 24 aprile a Bologna e il 6 luglio a Londra (Hyde Park).

Breathe. Introdotta da Speak To Me, sancisce l’inizio dello show. Esecuzione impeccabile, quasi scolastica. Waters, in questo tour, vuole cominciare “piano”.

One Of These Days. Qui si sale di tono, nettamente. A Milano l’ha resa più efficacemente rispetto a New York. Del resto è un brano in cui il basso signoreggia e soverchia. Apriva Meddle, anche se per molti resterà sempre “la sigla di Dribbling”. Un’altra versione pazzesca la si trova nel Live at Pompei di Gilmour, in cui David e i suoi mettono le palle sul tavolo con veemenza magnificente.

Time. Uno dei brani più belli e toccanti dell’umanità. I primi due minuti strumentali sono una delle prove dell’esistenza di Dio (cioè di Waters). Roger la eseguiva ancora meglio nell’In The Flesh Tour, ma anche qui gira bene. Molto bene.

Breathe (Reprise). Usata giusto come intermezzo tra il prima e il dopo.

The Great Gig In The Sky. Canzone monumentale, che però andrebbe lasciata così com’è. Invece Jess Wolfe e Holly Lessing la personalizzano troppo, gorgheggiando a casaccio e senza mai permettere che il dramma della canzone – “Deve parlare di morte”, dissero i Pink Floyd a Clare Torry prima che lei si inventasse quel provino-capolavoro nel ‘73 – esploda. Il momento meno ispirato del concerto, ieri come a New York e come sempre.

Welcome To The Machine. Enorme. Semplicemente enorme. Uno degli apici del tour. Canzone interamente watersiana, che già nel ’75 (è in Wish You Were Here) tradiva tutti gli incubi che funestano la psiche fortunatamente irrisolta del Mahatma Livido. Sul megaschermo scorrono le “consuete” animazioni macabre e tremende, tipo mostri giganti e teste sgozzate che divengono scheletri. Moriremo tutti, perché ce lo meritiamo e perché non vi sarà mai salvezza. Roger, il Sacerdote degli Incubi, ce lo ricorda. Giustamente. Magistralmente.

Deja Vu. E’ la canzone più bella dell’ultimo disco di inediti di Waters e lo è anche dal vivo. Struggente, con un crescendo che ti strazia (il drone che distrugge tutto). Sia Lode.

The Last Refugee. Non riesce a prendermi, quasi che il suo tono dolente le impedisse di prendere corpo, ma dal vivo – a Milano più che a New York – è di buon impatto.

Picture That. Terza traccia consecutiva tratta da Is This The Life We Really Want. Fortemente affine a Sheep, a volte funziona e a volte meno. Ieri è stata da 6.5. Nel frattempo, con le sue gambe da fenicottero e la sua maglietta nera attillata, Waters va su e giù sul palco, con quella faccia scolpita da uomo di Cro Magnon a cui gireranno sempre parecchio i coglioni.

Wish You Were Here. A volte Roger la esegue con eccesso di minimalismo. Ieri no. Toccante, epica, immortale.

The Happiest Days Of Our Lives, Another Brick In The Wall Part 2, Another Brick In The Wall Part 3. Quando Waters ha a che fare con The Wall, ha a che fare con se stesso. Ne nasce, ogni volta, un parossismo di dolore e bellezza che regnerà nei secoli. Trittico magistrale, che chiude la prima parte tra applausi, emozione e ferite.  Si sogna.

Intervallo. Dura 20 minuti, durante i quali potete telefonare a Gozi, picchiare Nardella o perdere tempo con una consultazione inutile con la Casellati Mazzanti Vien Dal Mare.

Dogs. Signore e signori, tutti in piedi a celebrare l’Avvento del Signore delle Apocalissi. Sopra di voi sta calando uno schermo enorme che riprende le ciminiere di Animals. Dave Kilminster, chitarrista da 12 anni con Waters, e Jonathan Wilson (che “fa Gilmour”), danno man forte a Waters. Nel mezzo, il solito siparietto a tavola con le maschere da cani. Quanto genio che c’era in Animals, Dio santo.

Pigs (Three Different Ones). Il punto più alto del concerto. Il punto più alto della vita. Il punto più alto di tutto. Non ci si crede. Non esiste. Non è possibile. Preghiamo.

Money. Qui Waters fa fare quasi tutto agli altri, perché deve riposarsi dopo Pigs, e Wilson – ottimo anche da solista: approfonditelo – se la cava con medio agio.

Us And Them. A me questa canzone ha sempre fatto piangere. Richard Wright aveva questo potere soprannaturale di scombinarti il cuore (Echoes, Shine On You Crazy Diamond Part VI-IX, The Great Gig In The Sky, Us And Them). Ho pianto anche ieri sera.

Smell The Roses. Non aggiunge molto (a parte l’intermezzo cupo che ti fa male parecchio, com’è giusto che sia). Nella seconda parte, che è bellissima, andrebbe sostituita da altro. Magari qualcosa da Amused To Death, capolavoro devastante e indelebile.

Brain Damage. “C’è qualcosa nella mia testa, ma non sono io”. Chiudete tutto.

Eclipse. Sto piangendo un’altra volta.

Applausi. Qui ci sono almeno tre minuti in cui ogni forum viene giù e lui si commuove, o forse è solo bravo a fingere. Poi dice che è al 100esimo concerto di questo tour e ogni volta sente tanto amore, e tutto questo amore va salvaguardato da quegli “assholes” di Trump, Macron, Berlusconi, May e derivati che “vogliono ucciderti il cuore”. A differenza di tanti artisti paraculi, Waters si è sempre assunto la responsabilità delle proprie idee. Come sulla Palestina. Come sulla Siria. L’ho sempre amato anche per questo. Quindi parte con gli ultimi due brani.

Mother. Quanto è semplice e perfetta, questa canzone. Roger ci arriva stanco: quando deve salire – “Mother will they put me in the firing line?” – non ce la fa, e allora si “limita” a recitare il verso. Va bene lo stesso. D’effetto la scritta “col cazzo” subito dopo la strofa “Madre devo fidarmi del governo?”. Ovazione.

Comfortably Numb. Wilson e Kilminster non sono Gilmour e nemmeno Vedder, ma tengono il passo. Waters, durante l’assolo, scende a salutare le prime file. Dà il cinque a chi ce la fa. Io ce l’ho fatta, ancora con la mano destra, la stessa che strinsi il 25 aprile 2017 quando lo intervistai a New York. Al tempo, quella stretta portò a un’ustione di secondo grado: troppa Luce, troppa Tenebra. Ieri, ad andare perduto per eccesso di autocombustione, è stato tutto il braccio. Pazienza. Ne è valsa e varrà sempre la pena.

Roger Waters, la recensione del concerto al Forum di Assago: dalla toccante Time alla perfezione di Mother. La serata brano per brano

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