Se avete letto Emilio Salgari, saprete quanto mistero possano evocare posti come il Borneo. Sono misteri che continuano oggi: nessuno ha ancora capito come ha fatto un’intera baia a prendere fuoco dopo una misteriosissima rottura di un oleodotto sottomarino. È successo due settimane fa (il 31 marzo) ma ancora non se ne viene a capo.

Balikpapan è un porto indonesiano molto trafficato, con una raffineria di proprietà della Pertamina, azienda di Stato. L’impianto oggi ha una capacità di raffinazione di 260mila barili/giorno ma l’idea è di incrementare la produzione fino a 360mila barili/giorno (obiettivo adesso fissato al 2020), in un contesto generale di incremento della capacità di raffinazione in Indonesia, con investimenti da decine di miliardi di dollari e accordi con aziende di tutto il mondo: Oman, Russia, Stati Uniti, Francia…

Se vuoi smuovere tutti questi soldi, devi almeno dare l’impressione di essere in grado di gestire questi traffici, ma il permanere di tanti misteri sull’incidente di Balikpapan – ormai imbarazzanti anche per la stampa locale – non dà l’impressione di efficienza.

Dopo aver inizialmente negato di essere collegata al disastro, in cui sono morti tra le fiamme cinque pescatori, Pertamina ha poi ammesso che l’origine della “dispersione” era proprio un suo oleodotto. Si tratta di un tubo che giace a poche decine di metri di profondità e collega la raffineria di Pertamina con il teminale di Lawe-Lawe, dall’altra parte della baia: quattro chilometri scarsi. Ovviamente, ancorare nei pressi di questo oleodotto è vietato [vedi cartina in basso]. Pertamina tuttavia sostiene che l’oleodotto sarebbe stato “spostato” di decine di metri dall’ancora di una carboniera con bandiera panamense, la Ever Judger: 230 metri di lunghezza. Se davvero la causa della rottura è questa, come minimo c’è un problema di gestione dell’area portuale. Che una nave di 230 metri cali l’ancora vicino a un oleodotto, senza che nessuno se ne accorga, è incredibile.

Più che lo sversamento di un quantitativo (anch’esso ancora misterioso) di petrolio in mare, il vero disastro è stato l’incendio che ne è seguito. Come è cominciato? Come ha fatto a bruciare le barche dei pescatori che lavoravano in zona e a mettere in pericolo (secondo le cronache) la stessa carboniera “panamense” che dovrebbe aver causato la rottura dell’oleodotto? Le cronache dei giorni successivi parlano di una baia satura di petrolio, con la minaccia di ulteriori incendi che le autorità locali hanno cercato di scongiurare chiedendo di non fumare vicino al mare. Si sono diffuse anche voci (non confermate ma nemmeno smentite) che l’incendio sia stato appiccato intenzionalmente per contrastare la fuoriuscita di petrolio: una pratica molto più diffusa di quanto non si creda. Ad esempio, è stata utilizzata durante l’incidente della Deepwater Horizon nel Golfo del Messico.

L’ennesimo mistero riguarda infine gli impatti di questo sversamento: secondo l’Agenzia Ambientale di Balikpapan, il 90% del petrolio sversato sarebbe già stato recuperato. In molti contestano questa cifra, vista l’entità dello sversamento (che, come dimostrano varie foto, avrebbe contaminato anche le foreste a mangrovie lungo la costa). Anche l’entità dell’area interessata è oggetto di dispute: secondo il Ministero indonesiano degli Affari Marittimi e della Pesca, l’area interessata (stimata con foto satellitari) arriverebbe a 200 chilometri quadrati, e per ripulirla tutta ci vorrebbero almeno sei mesi. Il Ministero dell’Ambiente sostiene che si tratterebbe “solo” di 130 kmq che sarebbero stati ripuliti in tempi record.

Greenpeace ha chiesto chiarezza su tutto questo e, insieme a numerosi comitati locali, sta chiedendo giustizia, a cominciare dall’applicazione del principio “chi inquina, paga”. Centinaia di migliaia di persone stanno vivendo nel terrore, migliaia di persone sono state intossicate, cinque sono morte. Chilometri di coste sono state inquinati, le attività di pesca (su cui si basa una fetta consistente dell’economia locale) sono minacciate, per non parlare di specie in pericolo come il delfino dell’Irrawaddi (almeno un esemplare è morto per l’inquinamento) un cetaceo incluso nella lista rossa delle specie in pericolo. Come si concilia tutto questo con le pretese dell’industria petrolifera – da BP a ENI – che sostiene addirittura i “benefici” degli sversamenti di idrocarburi?

Per finire: l’oleodotto in questione porta il petrolio del terminale di Lawe-Lawe alla raffineria di Pertamina. Uno dei tanti misteri di questa storia è che quasi nessuno ha detto che il terminale in questione è di Chevron (che infatti ha partecipato alle operazioni di “pulizia”). Una compagnia che in Italia dovrebbe essere più famosa di Pertamina. Ma di cui nessuno parla. Mistero.

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