Sono loro che oggi raccontano la guerra, perché i giornali hanno scelto di investire sempre meno nelle zone di conflitto, di tagliare budget in un’epoca dove ci si accontenta “delle agenzie e di internet”, perché “si ritiene che si possa fare informazione gratis, ma non è così”. Protagonisti di questo scenario contemporaneo i freelance: sottopagati, senza diritti e assicurazione perché i media, ormai, non si prendono la responsabilità – soprattutto economica – di tutelarli. Eppure oggi l’informazione è fatta da loro almeno per il 50%. The Post racconta la storia gloriosa di un giornalismo d’altri tempi, coraggioso e audace, dove verità e libertà di stampa erano centrali, mentre il tema dei compensi non era un problema da affrontare. Nella realtà di oggi, invece, questo è il punto dolente. Cruciale. Perché vivere del mestiere a queste condizioni è sempre più complicato. Specie per chi, quello che racconta, vuole vederlo in prima persona e non raccontarlo seduto davanti allo schermo di un pc, rischiando e mettendoci la faccia. In Italia i freelance sono spesso considerati gli “sfigati della notizia”, quelli che se muoiono alla fine “se la sono cercata”. Che accettano compensi ridicoli per necessità e così facendo affondano anche se stessi. Ma che continuano a resistere al giornalismo da fast food, passando mesi a intessere relazioni nei luoghi di guerra dove sono, dove una giornata “costa più di mille dollari” e dove la sfida, più che entrare in un Paese, è tornare a casa. Abbiamo intervistato Francesca Borri, Barbara Schiavulli e Gabriele Micalizzi, che da anni lavorano dalle zone più calde: Iraq, Medio Oriente, Africa, Yemen. Il loro racconto dietro le quinte è quello di chi ha scelto, oggi, di fare questo mestiere. Senza paracadute.

“Noi, freelance italiani in zone di guerra. Giornali e tv ci pagano poco, ma i lettori vogliono le nostre storie”

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