Cinema

Made In Italy, Ligabue fa un’ode riuscita (e un po’ kitsch) alla sua provincia populista

Made in Italy rimane un film con un’anima, che mette in immagini il coraggio delle proprie idee, esposizione bonaria dei limiti culturali del volgo, sottolineatura e non esaltazione di quel “populismo” che nei discorsi progressisti dell’oggi sembra una malattia infettiva da abbattere con il napalm

di Davide Turrini

Salvate il soldato Ligabue. La rockerilla padana, portici bassi e campi di girasoli, mortadelle insaccate e “andiamo a ballare”, amici borderline che si drogano e giocano alle slot, è tornata. Made in Italy, quindici anni dopo Da zero a dieci, è l’unico film possibile che Ligabue continua a fare da Radiofreccia. Dolente storia di provincia qualunquista e incazzata, a suo modo anarchica e bizzarra, protagonisti ebbri di antichi e solidi sentimenti di amicizia, travolti dalle corna, dai licenziamenti sul lavoro, e da morti improvvise. Un realismo cinematografico elaborato in solitaria, strutturato da un’estetica poco mediata teoricamente, molto pop, con improvvise impennate da videoclip, Made in Italy porta in scena senza troppe fisime da blasonate scuole di sceneggiatura la quintessenza di una filosofia da manifesto poetico delle proprie canzoni e del proprio spleen cineamatoriale, quel “farsi andare bene tutto”, architrave della celebre hit “Una vita da mediano”.

In una città media della via Emilia, Riko (Stefano Accorsi), appunto, si fa andare bene la vita che ha: una bella moglie parrucchiera che lo tradisce (e lui tradisce lei), un lavoro da 1200 euro al mese vestito come “un preservativo” in un salumificio della bassa reggiana dove tutto il cibo è insapore e l’aria pesante che si respira è quella della dismissione di dipendenti e felicità sociale (a proposito, ma la celebre marca di salumi che appare di continuo si fa una pubblicità davvero pessima). L’andamento ripetitivo della quotidianità è però un pentolino che bolle, un desiderio di fare qualcosa che dia più che una svolta, un senso alla propria vita. L’economia del racconto in questo è perfetta. Non ci sono grandi deviazioni dall’obiettivo prefisso e i conti dell’intreccio tornano tutti. Riko con i tre amici (tra cui il collega operaio e il pittore maudit che dilapida l’eredità di famiglia) va a Roma, la osserva dall’alto, poi si getta in mezzo ad un corteo incazzato che sciopera per riavere l’articolo 18. Scontro voluto con la polizia e manganellata da ospedale in piena fronte.

Nemmeno il pietismo tv che arriva al capezzale dell’operaio ferito viene accettato dall’operaio stesso che pur non essendo testa calda da centro sociale rivendica il proprio gesto: “Siamo stati noi a caricare. È nel gioco delle parti”. Poi enumera con un tono da commedia amara una serie di sfighe dell’oggi (casa svaligiata ogni sei mesi, pensioni slittate di continuo, stipendi da miseria) e una casa “che mio nonno e mio padre costruirono, che io non riesco a permettermi e che nessuno vuole comprare”.

Made in Italy è zeppo di risentimenti del nuovo proletariato quarantenne, un esercito di estetiste, osteopate e gestori di palestre con smartphone, tatuaggi, e amicizia con coppia gay. Eppure Ligabue (soggetto, sceneggiatura e regia) trova spazio per ficcarci Pavese e la disperazione del singolo che non trova più sbocchi se non nell’appassire. Nessuna nostalgia per i tempi da Emilia rossa che furono, perché quella raccontata dal rocker è un’Emilia marroncina, gravida di rancore anti-sistema, di un sentimento di sfiducia nelle istituzioni di un paese sclerotizzato che tutto può essere ma non privo di una lampante elaborazione drammaturgica sulla contemporaneità. E nonostante il risultato generale dell’opera rischi talvolta di sfiorare il kitsch, come in alcuni momenti stravaganti della coppia protagonista (il matrimonio, ad esempio), Made in Italy rimane un film con un’anima, che mette in immagini il coraggio delle proprie idee, esposizione bonaria dei limiti culturali del volgo, sottolineatura e non esaltazione di quel “populismo” che nei discorsi progressisti dell’oggi sembra una malattia infettiva da abbattere con il napalm. In tempi di tinelli da psicodramma e commedia rantolanti battute che non fanno ridere, Ligabue ha il pregio di proporre un film di pancia e di testa dura, politico e mai scontato.

Un dinoccolato Accorsi, infine, cicca in bocca, camicione da rocker aperto sul davanti, e pugno facile, si infila come un guanto il personaggio del provinciale dall’anima intonsa e dalla rabbia compressa nello stomaco e nella mente. Strapiombo esistenziale che in altri tempi veniva osservato, ovviamente con un’estetica cinematografica più raffinata, da un Olmi o da un Antonioni. Un neo evidente e grosso però a Ligabue non glielo si perdona: i suoi brani musicali (mai piaciuti, ma una questione altamente soggettiva) che si ha l’accortezza di tenere di accompagnamento e strumentali fino al minuto 40 dentro al corpo filmico di Made in Italy quando diventano scrittura e traino della storia ci stanno a dire davvero poco.

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